Relazione dell’Arcivescovo per un Convegno in corso a Rovereto dal tema: “L’Italia nella Guerra mondiale e i suoi fucilati: quello che (non) sappiamo”

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 Il testo inviato dall’Ordinario Militare (Vittime di una “inutile strage”) è stato letto stamane da don Gianmarco Masiero

 (5-5-2015) Se è vero che la guerra è, come disse il Papa Benedetto XV a proposito del primo conflitto mondiale, un’«inutile strage» è vero che, nella guerra, tutti sono vittime. Lo sono i vinti (è facile considerarlo!) e lo sono anche i cosiddetti vincitori. E non soltanto per il prezzo enorme di morti e feriti che ogni guerra miete da entrambe le parti, ma perché la guerra è, prima di tutto e soprattutto, una sconfitta dell’umanità; potremmo meglio dire che essa è una “sconfitta dell’umano”. Nella guerra, in un certo senso, non ci sono vincitori o vinti ma c’è l’uomo che va contro se stesso. Lo sguardo rivolto al nostro mondo e i bilanci storici delle guerre passate, aiutano a supportare tale considerazione, dimostrando che la guerra non ha, in se stessa, un potere risolutivo: aggiunge problemi a problemi, odio a odio, vendetta a vendetta, distruzione a distruzione, povertà a povertà, fragilità a fragilità, morte a morte. Noi oggi guardiamo ad eventi che paiono essere molto lontani dalla sensibilità odierna, in particolare nel modo di concepire il ruolo delle forze armate nonché il senso stesso della guerra. Tenuto conto di questo, bisogna riconoscere che a cento anni di distanza dall’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale è pressoché unanime la consapevolezza che quella guerra poteva essere evitata, che il giudizio circa la sua ineluttabilità non era certo una valutazione serena e obiettiva. D’altra parte, la pace costruita sul solco di quella guerra, come la storia ci ha poi rivelato, non è stata sufficiente né stabile: non sono i confini ridisegnati o le norme imposte a promuoverla, talora neppure gli accordi internazionali. La parola ebraica shalòm, che significa pace, è un’espressione complessa che indica pienezza, totalità. Pace, infatti, è molto più che la semplice assenza di guerra; sappiamo come non vi sia pace senza giustizia, equità, rispetto della dignità umana; senza superare quella «cultura dello scarto» su cui Papa Francesco continuamente ci invita a misurarci sul piano politico, sociale, antropologico e anche ecclesiale. La pace di un popolo è legata anche alla “maturazione” di questo popolo. Per questo, al maturare della pace contribuisce una rivisitazione, una rilettura, una reinterpretazione dei fenomeni che hanno portato alla guerra o degli eventi che come conseguenza di essa si sono sviluppati. Anche questo significa fare memoria; anche questo significa non dimenticare: anche questo è necessario affinché il monito eterno che la guerra continua a gridare – e che troppo spesso rimane inascoltato – rimanga come insegnamento sempre più chiaro, soprattutto per le generazioni future. È in questo far memoria che ha trovato spazio, in Italia come nel resto d’Europa, la necessità di approfondire il tema dei fucilati di guerra, cioè di quei soldati che, nel primo conflitto mondiale, furono uccisi perché considerati “disertori”. L’argomento ha suscitato un grande interesse da parte di storici e politici. Il quotidiano “Avvenire” ha avuto il merito di proporre per primo, su questo argomento, una riflessione approfondita, e oggi anche il nostro Parlamento se ne sta occupando tramite un gruppo di lavoro apposito insediato dal Ministro della Difesa Roberta Pinotti. Non è certamente mio il compito di condurre un’analisi storica o politica. Tuttavia, come pastore della Chiesa che opera all’interno del mondo militare, ho considerato la riflessione su questo tema di grande importanza per la crescita della coscienza civile e per il ministero educativo e pastorale che ci è affidato. Compito principale dei cappellani militari, infatti, è l’accompagnamento, il sostegno e la formazione dei militari, nel loro servizio quotidiano a difesa della pace e della libertà dei popoli. Il ruolo delle Forze Armate trova spazio proprio nella necessità di contrastare e prevenire la guerra, esercitare la difesa di oppressi e innocenti che ne sono vittime, promuovere la custodia dell’ordine pubblico e della giustizia. Le storie dei soldati italiani fucilati in guerra sono di vario genere e diverse testimonianze le stanno riportando alla luce. Si trattava di cittadini forzatamente prelevati per essere inviati a combattere una guerra che, spesso, non capivano. Per alcuni di essi il rifiuto, la fuga, la diserzione, o talora semplicemente i ritardi nel giungere al fronte, erano dovuti forse solo alla paura o alla semplice nostalgia della famiglia, mentre per altri significavano una positiva e coraggiosa opposizione alla guerra. Molti furono trucidati senza pietà, senza considerazione della gravità dei gesti compiti, con la finalità di voler «dare l’esempio» a chi volesse comportarsi in maniera analoga; e, magari, furono fucilati proprio dai loro superiori, da coloro che ne avevano la responsabilità. Cari amici, è proprio vero: il grido della guerra è (come ha ricordato Papa Francesco a Redipuglia il 13 settembre scorso) il grido di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?». È il grido della deresponsabilizzazione, è il grido dello stravolgimento dell’umano, fin nelle sue relazioni più vincolanti e significative. Cento anni fa le fucilazioni dei soldati furono un “segno” che tutti consideravano valido nella logica della guerra. Ma il mondo militare oggi si oppone proprio a una tale “logica”. E, di questo, mi sembra costituisca un diverso “segno” la discussione che si sta portando avanti circa una possibile e doverosa “riabilitazione” o inclusione tra i caduti di questi fratelli fucilati. Credo che dobbiamo leggere il valore di “segno” che quelle morti oggi ancora rivestono, assieme a tutte le vittime della guerra. Sono il segno del fallimento di ogni guerra, della sua inutilità; del fatto che, come dicevamo, tutti sono vittime della guerra. Vittime di decisioni ingiuste, vittime di un frainteso senso di giustizia, vittime di quella paura che è il comprensibile frutto della fragilità umana e del terrore che la guerra porta con sé. Vittime, infine, di una disumanità con la quale, presto o tardi, bisogna fare i conti a livello di decisioni politiche e a livello personale. Se dunque la guerra è “sconfitta dell’umano”, la pace è, potremmo affermare, “maturazione dell’umano”; una maturazione che ci aiuta a rivisitare gli eventi, non solo con il metro delle leggi di guerra, delle regole o dell’opportunità ma esattamente con il metro dell’umanità. È in questa antitesi “sconfitta dell’umano – maturazione dell’umano” che mi sembra possa essere in definitiva inquadrato il tema dei fucilati in guerra e della loro “riabilitazione”. E ciò non va a scapito della giustizia, non è una sorta di “buonismo” che scavalca la giustizia, ma va nella direzione di un pieno senso di giustizia. Perché la giustizia (occorre ricordarlo!) non può mai essere contraria al senso della dignità umana. E perché la giustizia, proprio perché umana, si proietta naturalmente in un respiro più ampio, nell’orizzonte luminoso della carità, della pietà, della fraternità, e dunque dell’amore e della pace. X Santo Marcianò