Condanna o Misericordia?

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(30-06-2017) E’ titolata così la meditazione tenuta dall’Ordinario Militare ai Cappellani delle carceri, lo scorso 28 giugno presso la Direzione Generale della Formazione del Ministero della Giustizia. Di seguito il testo integrale.

 «Allora Gesù si alzò e le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?» (Gv 8,10) Carissimi fratelli, è una gioia essere tra voi e potervi dire la mia stima e gratitudine, condividendo un tempo di preghiera sulla Parola di Dio. Il versetto che meditiamo (Gv 8,10) è tratto dal cosiddetto “Vangelo dell’adultera”, un brano molto noto che, giustamente, rappresenta un’icona del Dio Misericordioso. Un Dio, il nostro, che perdona i peccati mentre, potremmo dire, revoca la condanna. Proprio al contrario di noi uomini, quando ci affanniamo a condannare senza perdonare. Il perdono cancella i peccati molto più della condanna, questo ci dice Gesù! Non si tratta, tuttavia, di una cancellazione automatica; di un buonismo, per così dire. Si tratta di un’azione complessa, per la quale tutti – non solo il peccatore – sono chiamati a collaborare. Il peccato è anche un affare di comunità!   Da una parte, infatti, Gesù è rivolto alla donna: «Va’ e non peccare più». È lei che non deve peccare, è lei che, ottenuta la grazia del perdono, sarà posta dinanzi alla scelta di accettarla o meno. Sì. Il perdono fa intravedere la potenzialità di conversione che la condanna non riesce a instillare. Il perdono porta alla luce la vita vera, il bene nascosto dentro l’uomo. Lo fa proprio come un parto e, come il parto, è doloroso e splendido. Il perdono raccoglie tutte le energie di bene, le catalizza, le vivifica. Ma è sempre consegnato all’uomo, mai imposto: per questo, anche per questo valorizza l’uomo. La condanna è invece imposta, chiude la strada, trancia il futuro; fa percepire un blocco che sembra insuperabile. La condanna ci classifica, per così dire, in una definizione che riduce l’uomo al suo errore. L’uomo non è il suo peccato: non possiamo parlare di “un’adultera” – o di “un ergastolano”, “un ladro”, “un omicida”…. categorizzando la persona. La categorizzazione è diminuzione dell’umano. E’ solo in quanto persona che l’uomo può vincere sul peccato. «Siete persone detenute – scrive il Papa in una lettera ai detenuti di Padova – sempre il sostantivo deve prevalere sull’aggettivo, sempre la dignità umana deve precedere e illuminare le misure detentive»[1]. Ma la persona, da sola, non può farcela; non può farcela, potremmo dire, neppure sola con Gesù. Per questo, Cristo chiama in causa scribi e farisei e il suo è più che un rimprovero: è invito alla conversione. Gesù mette in luce il peccato del singolo e il peccato di tutti; ma è il peccato di tutti che finisce per condizionare il peccato del singolo molto più di quanto immaginiamo. La donna, in realtà, è icona di una comunità che pecca. È icona di uomini che la inducono nel peccato, di strutture di ingiustizia e di corruzione che sono molto più gravi delle fragilità personali. Gesù si rivolge agli scribi e ai farisei, si rivolge a noi. E noi siamo chiamati a passare dalla logica della condanna alla logica della rieducazione del cuore. Siamo chiamati a guardare al cuore della donna, dei detenuti, della storia, non per banalizzare il peccato, piuttosto per scorgere le possibilità del “non peccato”. Il “non peccato” è sempre possibile, ma richiede tutte le nostre forze e le forze di tutti. Richiede che siano chiamate a raccolta le forze dell’adultera, così come le forze della comunità. È bello pensare che Gesù abbia bisogno di voi per combattere contro il peccato dei detenuti; della vostra opera di evangelizzazione, della cura dei Sacramenti, in particolare la Riconciliazione… di voi come icone di comunità, di Chiesa che non condanna ma continua a combattere il peccato. E non condanna proprio per combattere il peccato con la prossimità. Proprio parlando ai cappellani della carceri, Papa Francesco ha fatto riferimento alla «giustizia di riconciliazione» ma anche «una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti. Questa non è un’utopia, si può fare. Non è facile, perché le nostre debolezze ci sono dappertutto, anche il diavolo c’è dappertutto, le tentazioni ci sono dappertutto, ma bisogna sempre provarci»[2]   Se ci pensiamo bene, i farisei e gli scribi non hanno scagliato la pietra, in questo senso sono stati onesti; ma sono andati via, non hanno saputo rimanere con la donna, dare la vita per lei. Noi, al contrario, siamo chiamati a restare. A restare in quanto preti, anche se a volte questo significa incorrere in errori o, comunque, in molte sofferenze. Restare tenendo fisso lo sguardo sui peccati personali, nostri e degli altri, ma anche prendendo il coraggio di affrontare i peccati sociali, combattere ingiustizie e corruzione. Siamo chiamati a restare, fidandoci del cuore dell’uomo. Siamo chiamati a condividere con i peccatori un’esistenza di speranza, sapendo anche che le nostre attese potranno essere deluse. Dio non sa cosa farà l’adultera quando le dice di non peccare più! Continua solo a non condannarla, pur continuando a chiamare il peccato con il proprio nome.   Cari amici, qual è il cuore di questo messaggio di misericordia? Cosa dice a noi Gesù in questa parabola? Vorrei richiamare la vostra attenzione su un particolare che sembra trascurabile: Gesù scrive! Per ben due volte Giovanni lo sottolinea. Ed è un atteggiamento che, apparentemente, non sembra in sintonia con quanto accade intorno. Ci sono le urla, le pietre, il rischio di una morte per lapidazione… e Gesù scrive! Non voglio qui proporvi letture esegetiche, che certamente conoscete, ma osservare Gesù che scrive con il dito: scrive per terra, certo, ma sulla terra, sulla sabbia. Scrive su una superficie che, così come è in grado di accogliere il segno di un dito, con altrettanta facilità è in grado di lasciare che si cancelli. Forse Gesù scrive il peccato della donna, le norme che gli scribi e i farisei elencano, quasi a comporre una sentenza particolare. Ma tutto ciò – tanto il peccato quanto la sentenza che tutti si aspetterebbero – sarà scacciato presto via dal vento, dalle orme dei presenti, o anche soltanto da una goccia di pioggia … Il dito di Gesù che scrive richiama il dito di Dio; anch’Egli scrive e questa volta in modo indelebile: scrive quando crea, quando redime con la Sua Grazia (il Dito di Dio, sappiamo, è lo Spirito Santo). Scrive nel cuore dell’uomo quella «legge nuova» che potrà permettere di emettere sentenze in cui giustizia e misericordia si possano veramente incontrare e baciare… Gesù scrive e ci chiede di leggere non le parole di condanna che escono dalla nostra bocca ma gli accenti di misericordia che scaturiscono da un cuore umano a misura del Cuore di Dio, come dev’essere il cuore del prete.   È la differenza tra legge antica e legge nuova; tra i precetti di Mosè, cancellati dal vento dello Spirito non perché sbagliati e annullati ma perché sospinti verso la legge alta dell’amore. L’amore può nascere solo da cuori che si sentano peccatori e salvati, che sappiano avere a cuore la salvezza dell’uomo, lottando contro il peccato. Da cuori, come diceva S. Teresina, consapevoli che se non hanno peccato è perché Dio ha tolto loro l’ostacolo dinanzi ai piedi, prima ancora che lo incontrassero. O che, come spesso fa Papa Francesco, dinanzi ai detenuti sanno chiedersi: «perché non io?» Gesù scrive ma tutti sono andati via; nessuno, per il momento, si interessa a quella legge nuova che Egli è venuto a manifestare. Nessuno sa leggere ancora le Sue Parole. Per questo, Egli morirà sulla Croce. Per questo, anche noi siamo chiamati a dare la vita per i fratelli, a restare con loro, condividendone le croci. Siamo chiamati a educare le persone a uscire dal peccato personale e a raggiungere il cuore del peccato sociale, delle reti di ingiustizia, che mietono tante vittime, anche trasformandole in carnefici, soprattutto tra tanti dei vostri ragazzi e giovani detenuti. La via della legge nuova è la Croce, questo ci dice il Vangelo dell’adultera. E noi sapremo scrivere questo Vangelo se non andremo via, come gli scribi e i farisei ma, come Gesù con la donna, sapremo restare accanto ai nostri detenuti, sapremo sperare nel “non peccato” e, per questa speranza, dare la vita. E così sia! X Santo Marcianò Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia


[1] Francesco, Lettera ai detenuti della Casa di reclusione Due Palazzi di Padova, 21 gennaio 2017
[2] Francesco, Discorso ai cappellani delle carceri, 23 ottobre 2013