Sardegna – Una profonda riflessione a margine della festa di San Giovanni XXIII

Facebooktwitterredditpinterestlinkedinmail

(27-10-2021) San Giovanni XXIII papa, patrono dell’Esercito ha lasciato scritto: “Amo l’Italia”. Inconsapevolmente, credo, ha trasmesso, in queste poche parole, un testamento e una guida alla quale ogni soldato fa riferimento nel suo servire quotidiano.

Ed è proprio sulla profondità del significato di queste semplici parole che mi sono soffermato a riflettere dopo le celebrazioni di quest’anno. Amare, servire, donarsi: questo è l’esempio e l’eredità spirituale e morale che San Giovanni XXIII ci ha lasciato.

Ho avuto modo, più volte, di sottolineare il fatto che da infermiere, prima e da cappellano, poi il nostro Patrono ha visto e conosciuto personalmente, il meglio e il peggio dell’umanità: dagli eroi che non esitavano a lanciarsi in azioni ardite, a volte dettate dall’incoscienza e dalla “balentia”, come diciamo in Sardegna, a coloro che tremavano davanti agli attacchi nemici o nell’attimo prima di scavalcare il parapetto della trincea per lanciarsi, a loro volta, contro il nemico.

Quei soldati, come quelli di oggi, erano, innanzitutto, uomini, persone, ognuna con i suoi pregi e difetti, affetti, speranze, paure, sogni e progetti e che, magari, avevano cercato in lui quel conforto di cui erano stati privati dalla durissima vita di trincea e dagli orrori di una guerra che, contrariamente alle previsioni, durò molti anni.

Papa Roncalli ha condiviso con questa umanità dolorante, vera e semplice, completamente analfabeta o quasi e non per questo meno degna di attenzione e cura e che combatteva per senso del dovere verso una Patria di cui, probabilmente, non aveva una grande consapevolezza, il peso di una responsabilità enorme che l’Italia gli aveva messo sulle spalle. Peso morale e senso del dovere sintetizzabile con la famosa scritta sul muro di una casa diroccata all’indomani della ritirata di Caporetto: “O il Piave o tutti accoppati”.

Con le celebrazioni dei 100 anni della traslazione del milite ignoto al Vittoriano, si concludono le celebrazioni del centenario della 1a Guerra Mondiale e, prima di avviarci verso il futuro prossimo, è arrivato il momento di tirare le somme e soffermarsi a meditare su cosa, queste celebrazioni pluriennali ci hanno lasciato.

La prima figura che mi sovviene è proprio quella di San Giovanni XXIII, che proprio in quegli anni muoveva i primi passi nella sua vocazione sacerdotale che lo avrebbe portato al soglio pontificio e, soprattutto, a lasciare un segno indelebile nella storia del secolo scorso della Chiesa e dell’umanità.

Credo, quindi, sia fondamentale, per non lasciare che tutto questo impegno celebrativo, assolutamente doveroso, si riduca a una sterile apparenza o a “un sepolcro imbiancato” impegnarsi perché tutto il modo laico militare scopra (o, meglio, ri-scopra e rinnovi) i valori che il nostro Patrono ci ha lasciato in eredità. Egli, con i fatti, è stato esattamente ciò che tutti vorremmo (e dovremmo) essere, cioè la personificazione del concetto di fede e carità espresso da San Giacomo nella sua lettera (Gc 2, 14-18): “A che serve, fratelli miei, se uno dice di aver fede ma non ha opere? Può la fede salvarlo? Se un fratello o una sorella non hanno vestiti e mancano del cibo quotidiano, e uno di voi dice loro: «Andate in pace, scaldatevi e saziatevi», ma non date loro le cose necessarie al corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in sé stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede…”.

Questo è ciò che sintetizza sublimemente l’operato di ogni soldato, servitore dello Stato e quindi della sua collettività. La pandemia, nella quale ancora ci dibattiamo tra mille difficoltà, è soltanto l’ultimo, in ordine di tempo, dei nostri impegni verso la “nostra gente”, che abbiamo giurato di servire e rappresenta l’ennesimo atto concreto di fatti sostenuti dalla fede, anche da parte di chi non ha il dono di averla. Ha comunque accumulato tesori in Cielo. Esattamente ciò che il nostro Patrono ci ha insegnato con le sue opere.

Tutti questi parallelismi sono necessari per sottolineare quanto di concreto ci sia, nel nostro servizio quotidiano, del testamento spirituale di San Giovanni XXIII: “Io amo l’Italia”. È il grido che ogni soldato, uomo o donna che sia, ogni mattina eleva dai piazzali d’onore delle nostre Caserme e dei nostri Comandi quando canta l’inno nazionale davanti al tricolore che, metaforicamente, raggiunge le vette del cielo. Non riconoscere questa verità, palesemente evidente, significa disconoscere il nostro ruolo del quale, invece, siamo estremamente orgogliosi e lo esercitiamo anche per coloro che vorrebbero utilizzarci “a la carte”, prendendo solo ciò che fa comodo e disprezzando tutto il resto.

Nel frattempo, in attesa che ci sia una maggiore coscienza collettiva di ciò che siamo e di chi siamo veramente, continuiamo a fare il nostro dovere a prescindere, perché, come scritto a caratteri cubitali nella palazzina sede del Comando Legione Carabinieri “Sardegna” in Cagliari, siamo “…usi obbedir tacendo e tacendo morir…”.

Generale di Divisione Francesco Olla
Comandante del Comando Militare Esercito “Sardegna”