Lezione alla Scuola di Polizia Tributaria, “Etica della responsabilità nella gestione delle risorse umane”

Lezione alla Scuola di Polizia Tributaria, “Etica della responsabilità nella gestione delle risorse umane”
 
4 marzo – Ostia Lido
 
«Una delle più profonde povertà che l’uomo può sperimentare è la solitudine» .
Vorrei che queste parole che Benedetto XVI pronuncia nell’Enciclica Caritas in Veritate diano, in un certo senso, il filo conduttore ai brevi spunti di riflessione che cercherò di offrirvi.
So di essere dinanzi al quadro dirigenziale e, in questo contesto così delicato, ritengo che il tema della responsabilità sia davvero una riflessione chiave, pensando alla gestione delle risorse umane che vi è affidata. Ovviamente, non entrerò nello specifico del tema della gestione nelle sue modalità concrete, che voi stessi conoscete e al quale potete offrire risposte pertinenti, ma limiterò ad aprire uno squarcio sul vasto tema della responsabilità che ad esso si collega.
Procedo in questa riflessione affrontando quattro punti:
1. Un fondamento antropologico
2. Tra libertà e coscienza
3. I livelli della responsabilità
4. Accogliere – Custodire
5. Valorizzare – includere
 
1. Un fondamento antropologico.
Ho voluto iniziare con le parole di Benedetto XVI sulla povertà della solitudine per inquadrare quello che potremmo considerare un fondamento antropologico, peraltro necessario, della responsabilità. L’idea di responsabilità, in realtà, affonda le sue radici in una verità fondamentale: la persona umana è un essere relazionale. L’orizzonte al quale mi riferisco è, ovviamente, quello dell’antropologia personalista, assunta dalla tradizione cristiana ma condivisa da molte alte correnti di pensiero, di cultura e di religione. Un’antropologia che, peraltro, mi sembra, per certi versi, una grande ricchezza che il mondo militare, quantomeno nella nostra realtà italiana, nei fatti si trova a condividere, orientato com’è al servizio alla persona.
Viviamo, in Occidente, in una società a cui un famoso pensatore ha dato la celebre definizione di «liquida», fotografando il grande problema della post modernità: la mancanza di legami . Tale è la differenza tra liquidi e solidi e tale, a parere dell’autore, è la condizione sociale ma, ancor prima, esistenziale dell’uomo oggi.
Si esprime in altre parole, ma con analoga pregnanza, l’attuale Pontefice che nella sua prima Esortazione Apostolica, l’Evangelii Gaudium, ricorda che «il grande rischio del mondo attuale, con la sua molteplice ed opprimente offerta di consumo, è una tristezza individualista che scaturisce dal cuore comodo e avaro, dalla ricerca malata di piaceri superficiali, dalla coscienza isolata» .
Questa tristezza individualistica, commenta peraltro lo stesso Papa Francesco, è ciò che si oppone alla «gioia del Vangelo» che è, in un certo senso, una gioia relazionale in quanto esperienza di «coloro che si incontrano con Gesù» .
Tutto, nella vita di un uomo, esprime questa realtà relazionale: i legami umani, gli impegni lavorativi, l’arte e lo svago. Tutto è fatto con qualcuno o per qualcuno, nulla si spiegherebbe al di fuori di questo; persino la fede non è una credenza ma, nel cristianesimo in particolare, è relazione personale col Dio fatto Uomo in Cristo Gesù.
È in questo quadro che, come dicevo, il tema della responsabilità si inquadra. Ed è per questo che si tratta di un tema presto contraddetto proprio dalla tentazione individualista.
 
2. Tra libertà e coscienza
Ma cosa significa responsabilità?
La responsabilità, anzitutto, è prerogativa umana; e già l’etimologia della parola ce ne svela la ricchezza e la complessità. Essa, infatti, possiede la duplice sfumatura del «valutare le cose» (rem ponderare) e del «dover rispondere» (respondere): si tratta, dunque, di qualcosa che solo l’essere umano può fare.
Non si può tuttavia parlare di responsabilità senza considerare come essa si leghi profondamente alla libertà la quale, naturalmente, ne è il presupposto. Solo degli atti liberi, e dunque volontari, noi siamo responsabili. L’etica della responsabilità esige un confronto sul tema immenso e affascinante della libertà umana che, se ci pensiamo bene, va sempre misurata sulla libertà dell’altro, cioè possiede anch’essa, come scriveva Giovanni Paolo II, «un’essenziale dimensione relazionale […]. Quando invece viene assolutizzata in chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità»; d’altra parte, essa «rinnega se stessa, si autodistrugge e si dispone all’eliminazione dell’altro quando non riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità […] e si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale»; così, il criterio delle scelte della persona diventa «non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio» .
L’altro polo della persona a cui dobbiamo fare riferimento è la coscienza: è ad essa che, primariamente anche se non esclusivamente, si indirizza quel “rispondere” che definisce la responsabilità umana. È quello che il Concilio definisce «il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo», dove egli «scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore» .
Sì, l’esercizio e l’amore per la responsabilità include tutto questo: fa riferimento alla grandezza della libertà, alla forza della coscienza umana, sottolinea la necessità di superare visioni individualistiche della vita, del lavoro, dell’organizzazione politica e sociale, potenziando quel principio del «bene comune» che, se rettamente interpretato come «bene di tutti e di ciascuno» che è «indivisibile» e «soltanto insieme» può essere raggiunto , si rivela anch’esso come la conferma della realtà relazionale dell’essere umano: esso è, infatti, «bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo» e ricorda che «la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere “con” e “per” gli altri» .
Non è forse questo un principio infallibile, anche e soprattutto nel guidare i compiti e le scelte di coloro che hanno responsabilità dirigenziali?
 
3. I livelli della responsabilità
Ma in quale spazio di responsabilità il quadro dirigenziale si colloca?
Nel suo saggio “Sulla responsabilità”, il filosofo polacco Roman Ingarden specifica come siano da distinguere «quattro diverse situazioni in cui compare il fenomeno della responsabilità: 1. Qualcuno ha la responsabilità di qualcosa, in altri termini è responsabile di qualcosa. 2. Qualcuno si assume la responsabilità di qualcosa. 3. Qualcuno viene responsabilizzato riguardo a qualcosa. 4. Qualcuno agisce responsabilmente» .
Utilizzando liberamente il quadro tracciato da queste considerazioni, potremmo trarne alcune conseguenze a noi utili.
Partiamo dall’ultimo punto. L’esperienza insegna come agire responsabilmente non sia affatto scontato, tuttavia esso è l’esito di un processo etico. A qualunque livello o profondità sia percepita la responsabilità, infatti, essa rimane fuori dall’etica se non si traduce in azione. Dall’altra parte, possiamo dire che ogni azione e decisione – nella fattispecie ogni scelta relativa alla gestione delle risorse umane – deve tener conto della responsabilità: deve, per come abbiamo affermato precedentemente, poter valutare, ponderare i fattori in gioco e, allo stesso tempo, non dimenticare che questa scelta si configurerà sempre come risposta nei confronti di qualcuno. Chi è questo qualcuno nei confronti del quale voi siete responsabili? Solo voi, è evidente, potete rispondere: vi invito però a considerare come ci sia da una parte chi vi ha affidato il compito e, dall’altra, coloro che ci sono affidati.
Nel primo punto del nostro schema si ricorda che qualcuno «è» responsabile di qualcosa. È un’affermazione che sintetizza una realtà. Una data responsabilità, infatti, si può legare a un compito, a un’identità, a una missione che nessuno può portare avanti al posto di una altro. E fin qui è tutto abbastanza ovvio.
Non è scontato, tuttavia, che, pur essendo responsabili, si sia pronti ad assumersi le responsabilità, cioè a fare quell’operazione interiore per cui ci carica delle responsabilità attraverso un atteggiamento soggettivamente attivo. Tra l’altro, bisogna considerare che, se questo farsi carico non avviene, le responsabilità finiranno per ricadere su altri,. magari proprio su coloro dei quali si è responsabili. Accade così che, talvolta, qualcuno si trovi ad essere responsabilizzato di qualcosa che non gli appartiene propriamente. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che l’essere responsabilizzati ha anche un risvolto positivo che esamineremo.
Nell’espletamento di un ruolo dirigenziale, e nella gestione delle risorse umane che ne consegue, mi sembra che questi quattro aspetti della responsabilità entrino in gioco in modo totale e significativo.
Non v’è dubbio che il ruolo comporta una responsabilità: in quanto dirigenti siete, primariamente, responsabili. Anche nel linguaggio comune, molto spesso, sostituiamo ad esempio la parola “direttore” con la parola “responsabile”, quasi indicando una coincidenza tra i due aspetti del ruolo.
È necessario, però, che tale responsabilità si traduca in azione, in capacità di agire responsabilmente: è questo che ci porta a fare scelte giuste, anche sul piano delle strategie dirigenziali, oserei dire anche sul piano delle strategie militari. È questo che ci fa parlare di etica delle responsabilità.
Come facilitare questo processo?
Vorrei lasciarvi due coppie di verbi che riassumono il mio pensiero in proposito: accogliere – custodire e valorizzare – includere.
 
4. Accogliere – Custodire
Bisogna, abbiamo detto con Ingarden, assumersi le responsabilità. E il verbo assumere è molto bello: significa fare proprie, sentire come proprie. Significa, per certi versi, introdurre in se stessi.
Ora, assumersi le responsabilità nella gestione delle risorse umane vuol dire sentire queste risorse umane – cioè queste persone – come parte di sé, introdurle nel proprio intimo, non per possederle o schiacciarle ma considerandole e rispettandole nella loro individualità. Questo significa accogliere e, da questo, deriva il compito del custodire.
D’altra parte, dobbiamo ricordare che l’uomo è custode dell’altro uomo. Lo è proprio perché, come abbiamo affermato nel principio della nostra riflessione, l’umanità non è «liquida» ma è unita da legami che non solo stabiliscono relazioni ma conferiscono identità.
Tali legami, prima ancora di essere rapporti di lavoro, relazioni tra capo e subalterno, si delineano e caratterizzano in chiave fraterna: anche Papa Francesco ha sentito il bisogno di affermarlo a inizio d’anno nel suo Messaggio per Giornata Mondiale per la pace, indicandone a fondamento proprio la fraternità . Un appello, questo, che non può restare inascoltato, particolarmente dal mondo militare.
Non vi sembri una forzatura: il tradimento della fraternità è tradimento della vocazione del custodire, dunque un tradimento della responsabilità, fin dall’inizio della storia umana.
Con grande profondità e lucidità, il filosofo ebreo E. Lévinas, riferendosi all’episodio di Caino, scrive: «Non bisogna prendere la risposta di Caino (“sono forse io il custode di mio fratello?”) come se deridesse Dio o rispondesse infantilmente non sono io (Abele), è l’altro. La risposta di Caino è sincera. In essa manca solo l’etica, vi è solamente l’ontologia: io sono io, e lui è lui» .; è l’individualismo più puro che ci fa interpretare la perdita della fraternità addirittura come omicidio. E Francesco Botturi commenta: «L’alienazione di Caino sta nel non rendersi conto del legame che lo unisce costitutivamente a suo fratello; legame che fa parte della sua identità, per il quale egli è custode di suo fratello così come, a sua volta, suo fratello è il suo custode. Il Caino di tutti i tempi non si rende conto che uccidendo suo fratello sopprime anche qualcosa di essenziale di sé. Per questo la custodia tra gli uomini è il modo attraverso cui essi fanno del mondo una dimora e, al contrario, non prendersi cura del fratello distrugge la dimora che custodisce la propria umanità. L’assassinio di Abele, infatti, significa per Caino perdere la dimora e andare errabondo ed estraneo in un mondo ostile. Senza relazioni generative il mondo, anche laddove sembra funzionare si desertifica» .
Sì, cari amici, senza la responsabilità del custodire, e senza il custodire che esprime e incarna l’assunzione di responsabilità nei confronti del fratello, anche il nostro ambiente di vita diventa un deserto che non solo è invivibile ma è arido, infecondo e, in ultimo, improduttivo anche in termini di gestione delle risorse.
 
5. Valorizzare – includere
E proprio la parola «gestione» richiama gli altri due verbi che ho voluto coniugare: valorizzare – includere. Come con la ricchezza di un prezioso patrimonio – uso questo paragone che è assolutamente sproporzionato ma, purtroppo, ci fa capire meglio quanto voglio dire -, le risorse umane non vanno disperse, eliminate, mortificate, ma valorizzate anche attraverso la responsabilizzazione delle persone.
Chi si assume la responsabilità, infatti, non fa certo ricadere la propria responsabilità su altri ma è capace di affidare ad altri le loro responsabilità, operando una strategia di potenziamento e valorizzazione dei singoli, delle loro ricchezze e competenze, nonché di tutto l’insieme.
È in questa chiave che mi piace rileggere quelle che Papa Francesco identifica alcune grandi sfide della nostra cultura contemporanea, che esplicita in quattro grandi «no» da dire in ambito principalmente socio-politico ed economico – e mi sembra che la gestione delle risorse umane tocchi trasversalmente questi settori –. Le elenco schematicamente, chiedendovi di tentare di applicarle e valutarne la ricaduta sul tema che stiamo affrontando: potremmo sostituire alla parola «economia» la parola «gestione», che più propriamente rispecchia questo nostro tema.
– «No ad un’economia – dunque a una “gestione”
– dell’esclusione»: no a quella visione economico organizzativa che esclude coloro che considera «scarti» o «avanzi» e che porta all’indifferenza, anzi alla «globalizzazione dell’indifferenza» necessaria, grida il Papa, «per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico» .
– «No ad una nuova idolatria del denaro», per cui tutto rimane sacrificato agli interessi del mercato e per cui siamo anche noi indotti a ritenere che i profitti economici valgano più delle risorse umane .
– «No a un denaro che governa invece di servire»: è l’appello a una solidarietà disinteressata e a un ritorno dell’economia – dunque della “gestione” – ad un’etica in favore dell’uomo .
– «No all’inequità che genera violenza»: e questo accade quando il sistema economico e sociale – dunque la modalità di “gestione” – è ingiusto alla radice .
Includere e valorizzare, dunque, per gestire responsabilmente le risorse umane: includere tutti, valorizzando le differenze e le peculiarità, chiudendo ogni spazio all’ingiustizia e mantenendo ferma la centralità della persona.
 
Conclusione
Cari amici, è proprio facendo appello a questa centralità che voglio concludere questo intervento. La responsabilità – lo abbiamo visto – mette in gioco un soggetto «qualcuno» e un oggetto «qualcosa». Ora, nel nostro caso, questo «qualcuno» siamo noi stessi, in particolare i dirigenti, ma il «qualcosa» sono esattamente le risorse umane da gestire, le persone affidate alla nostra responsabilità, i fratelli da custodire e accogliere, le ricchezze da valorizzare e includere.
Ecco, allora, che mi permetto di chiudere questo intervento facendo appello a un ultimo verbo: umanizzare!
L’etica della responsabilità, nella sua dimensione relazionale, ha alla sua base proprio la centralità della persona umana, la sua inviolabilità, la sua dignità in tutte le situazioni e circostanze della vita, nonché l’uguaglianza in dignità tra tutti gli esseri umani. Di questa dignità sono espressione i diritti umani e su questa dignità si fonda ogni società giusta che, cioè, riconosca l’essere umano come fine e non come mezzo, come soggetto e non come oggetto di progetti di carattere economico, politico, lavorativo o sociale .
È urgente riscoprire l’etica della responsabilità, e vi ringrazio perché avete avuto il coraggio, oggi, di interrogarvi su questo, ed è urgente riscoprire l’etica in ogni sfumatura dell’umana esistenza. «All’etica – scrive infatti Papa Francesco – si guarda di solito con un certo disprezzo beffardo. La si considera controproducente, troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere. La si avverte come una minaccia, poiché condanna la manipolazione e la degradazione della persona. In definitiva, l’etica rimanda a un Dio che attende una risposta impegnativa» .
Che il vostro compito dirigenziale e la vostra vocazione di persone chiamate ad alti gradi di responsabilità siano sempre riflesso di un’etica che, non degradando la persona, è davvero «troppo umana» e, allo stesso tempo, fortemente trascendente; una forza capace di farci “rispondere”, a un mondo liquido e alla povertà della solitudine, con la solidità di relazioni fraterne che responsabilizzano e umanizzano l’ambiente lavorativo, militare e l’intera città dell’uomo.
Grazie di cuore!
 
 
X Santo Marcianò
 
 
15-05-2014