Onorcaduti – Convegno “Culto della Memoria – Diffusione, tutela e rispetto”

La sacralità del corpo e il concetto di sacrificio

Grazie di cuore per questo significativo momento, un momento di memoria. E la memoria – dicevo l’altro giorno nell’Omelia a Cargnacco – dona identità, alla singola persona e al popolo; un popolo formato, plasmato anche grazie alla memoria.

Se ci pensiamo bene, già lo studio scolastico tende a educare in questa direzione: far capire ai bambini, ai ragazzi, ai giovani, chi siamo, qual è la storia del popolo, della Nazione cui apparteniamo, come pure la storia delle altre Nazioni e degli altri popoli che compongono la vicenda umana.

Anche i luoghi possono essere parte della memoria, conservando la memoria di quella storia che insegna sempre, attraverso le vicende belle nonché attraverso i drammi e gli errori, che a volte diventano orrori.

Ci troviamo, qui, nella sede del Centro Alti Studi Difesa ma anche in un luogo di memoria, testimone degli orrori consumati durante la persecuzione e la deportazione degli Ebrei di Roma, di cui proprio tra qualche giorno, il 16 ottobre, ricorrerà l’anniversario. E in questo luogo diventa più evocativa e pregnante la celebrazione dei 100 anni di Onorcaduti – i cui rappresentanti saluto e ringrazio –, realtà impegnata a conservare memoria degli orrori della guerra.

 

Parlare di memoria significa riconoscere, da un parte, una necessità e, dall’altra, un impegno affidato a chi sia chiamato a custodirla, diffonderla e tramandarla. La memoria, dunque, è un dono e un compito e, prima ancora di essere memoria di eventi, essa è memoria di persone; per meglio dire, la memoria degli eventi serve nella misura in cui non fa dimenticare le persone, le persone concrete.

Anche i sacrari sono luoghi dove si conserva la memoria; luoghi significativi, perché legati a eventi particolari della storia, e resi significativi dalla presenza delle tombe di coloro la cui vita ha inciso profondamente nella storia. La tomba è segno carico di valore, non solo simbolico: essa ospita il corpo che è segno, quasi “sacramento” – diceva Giovanni Paolo II – della grandezza della persona e del suo mistero. Perché la persona è una speciale unità di corpo e spirito ed è proprio questa unità che conferisce al corpo la sua infinita dignità, la sua “sacralità”, unica e irripetibile come ogni creatura umana.

 

Oggi il messaggio circa la sacralità del corpo è di difficile ricezione: il corpo umano è facilmente strumentalizzato, manipolato, usato a fini edonistici o commerciali. Il corpo è separato dalla persona, con un dualismo che ci fa tornare indietro nel tempo, in un’arretratezza culturale paradossalmente rivendicata sotto forma illusoria di progresso.

Ci fa giustamente orrore pensare, ad esempio, alle sperimentazioni perpetrate sui corpi umani, anche di alcuni tra coloro che proprio qui furono deportati, ma non ci fa altrettanto orrore considerare le manipolazioni e sperimentazioni sugli embrioni o la loro eliminazione selettiva, accanto allo scarto dei corpi dei poveri che continuano a morire di fame, dei corpi dei migranti spesso dispersi nel mare, dei corpi di malati terminali, e non solo, lasciati morire.

Ci turba pensare al corpo umano storicamente ridotto alla prassi della schiavitù, che la nostra civiltà ha fortunatamente superato, ma non siamo pronti a identificare le nuove schiavitù di lavori privi di dignità, del culto esasperato dell’estetismo e della perfezione, di diverse tipologie di dipendenze, che tolgono libertà al corpo e alla persona.

Inoltre, ancor più semplicemente, non ci accorgiamo di quanto la cultura mediatica, con le sue molteplici connessioni e la sua scarsa o falsa comunicazione, stia privando le relazioni interpersonali del mistero di una presenza di cui il corpo è strumento.

 

È necessario, pertanto, un recupero in termini antropologici: la riflessione sul significato del corpo diventa riflessione sul significato dell’uomo.

E rispetto a una visione materialista, secondo cui il corpo esaurisce la totalità dell’essere umano, o al dualismo che pone quasi una conflittualità tra anima e corpo, l’antropologia personalista valorizza l’essenza della persona come corporeità e spiritualità unite insieme. «Ciò che è proprio del mio corpo è di non esistere da solo, di non poter esistere da solo», affermava il filosofo Gabriel Marcel, per il quale, peraltro, è proprio la corporeità umana a confermare la natura relazionale, sociale della persona; il corpo è identità, presenza, luogo di riconoscimento reciproco e possibilità di comunione.

Il corpo poi è capacità di linguaggio, che esprime l’io anche attraverso le parole, i silenzi e la gestualità. Il corpo è anche limite e porta impressi in sé i segni del dolore, della malattia e della morte. E il corpo partecipa della trascendenza della persona, vale a dire della sua distanza ontologica rispetto ad altre realtà, e del suo essere orientata all’Assoluto e al dono di sé; è qui che l’essere umano si realizza, superando quella che Papa Francesco ha chiamato l’«egolatria», ossia «un vero e proprio culto dell’io, sul cui altare si sacrifica ogni cosa, compresi gli affetti più cari. Questa prospettiva non è innocua – egli ha spiegato -: essa plasma un soggetto che si guarda continuamente allo specchio, sino a diventare incapace di rivolgere gli occhi verso gli altri e il mondo»[1].

È proprio vero: se si smarrisce il senso del corpo si smarrisce il senso dell’uomo, dell’umano!

 

Anche l’opera di Onorcaduti obbliga a riflettere sul significato e il valore, la bellezza e la dignità del corpo umano, anche nella fragilità. E quale fragilità potrebbe essere maggiore di quella di un corpo che, pur nella morte, conserva tutta la sua dignità?

Quei corpi custoditi nelle tombe dei sacrari, ai quali si cerca di dare un nome, sono corpi di persone che in vita hanno combattuto, parlato, amato… che hanno tessuto la storia del nostro tempo, della nostra Patria.

È significativo ricordare come questo servizio di recupero e di custodia dei corpi dei caduti sia iniziato durante la prima guerra mondiale ad opera dei cappellani militari, molti dei quali hanno rischiato la vita sul fronte anche nel corso di operazioni di questo genere, convinti della necessità di dare al corpo il dono di una benedizione, la restituzione alla famiglia o quella dignitosa sepoltura che oggi molti caduti trovano nei sacrari.

La sacralità del sacrario è la sacralità del corpo e la sacralità del corpo è la sacralità della persona.

Per questo la venerazione del corpo umano, anche quando la morte ne abbia tolto la vitalità, diventa segno di speranza. Una speranza che la fede nella Risurrezione illumina con forza, perché ci insegna che il corpo, lo stesso corpo che ha vissuto in terra, rinascerà, sia pure trasfigurato, alla vita eterna, il che ne conferma la sacralità.

 

E la sacralità del corpo è impreziosita dal sacrificio di chi ha saputo offrire la propria vita come dono per qualcosa di più grande. La stessa etimologia della parola “sacri-ficio” rende ragione di una realtà sacra. Le salme dei caduti insegnano il valore del sacrificio, di cui il nostro tempo ha smarrito la misura. Papa Francesco ha avuto il coraggio di dirlo ai giovani nell’Esortazione Apostolica Christus Vivit, mettendoli in guardia dal condizionamento di «modelli di vita banali ed effimeri, che spingono a perseguire il successo a basso costo, screditando il sacrificio», ad esempio «inculcando l’idea che lo studio non serve se non dà subito qualcosa di concreto. No – spiega il Papa -, lo studio serve a porsi domande, a non farsi anestetizzare dalla banalità, a cercare senso nella vita…»[2].

Il sacrificio, da una parte – come nello studio – è impegno, fatica, anche del corpo; è una preparazione, una dedizione che si colloca sulla stessa scia della ricerca di senso. Ma è il senso stesso della vita ad essere sacrificio: è l’offerta di se stessi, il dono di sé, lo dicevamo, a rivelare – è ancora Papa Francesco – che «non c’è vero amore senza il sacrificio di sé»[3].

Il sacrificio non è rinuncia ma consegna a qualcosa o a qualcuno per cui valga la pena vivere e anche morire.Un dono di sé, nell’amore che dona senso alla vita e del quale il corpo rimane segno eloquente se, come in un sacrario, si custodisce la memoria.

 

Cari amici, è la memoria del corpo, del valore del corpo umano, sacramento della dignità unica e irripetibile di ogni persona e strumento della relazionalità che sostiene la fraternità, sperimentata persino in tempo di guerra ma da ritrovare proprio nella nostra cultura individualista.

È la memoria del sacrificio che dona senso alla vita: quanta testimonianza, al riguardo, è racchiusa nei sacrifici quotidiani, talora eroici, degli uomini e donne delle nostre Forze Armate e Forze dell’Ordine! Come non pensare, in questo momento, all’attentato in cui due giovani poliziotti, servitori dello Stato, hanno perso la vita a Trieste qualche giorno fa?

Per l’anniversario che celebriamo, e per tutto questo, si leva, oggi, la nostra gratitudine.

Grazie di cuore!

                                                                                                                                                                                                                                                         Santo Marcianò

                                Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia

 

 

[1] Francesco, Discorso ai Membri della Pontificia Accademia per la Vita, 5 ottobre 2017

[2]Francesco, Esortazione Apostolica Christus Vivit, 223

[3]Francesco, Angelus, Roma 3 settembre 2017

Roma, Palazzo Salviati
09-10-2019