Omelia in occasione del raduno dei Granatieri di Sardegna

20-07-2016

Asiago – 5 giugno 2016  Carissimi fratelli e sorelle, sono felice di presiedere questa Eucaristia in occasione del raduno dell’Associazione Granatieri di Sardegna e commemorare il centenario delle vicende alla Prima Guerra Mondiale che videro proprio qui nell’altipiano di Asiago una delle stragi in cui si conta il bilancio più pesante di vittime. Tante giovani vittime, particolarmente del Corpo dei Granatieri, che saluto e ringrazio con particolare stima e affetto. Tante giovani vite la guerra ha spento nella nostra Nazione: la prima Guerra Mondiale come le altre guerre… Qui, nell’altipiano di Asiago, tanti giovani che avevano tentato di fermare l’attacco militare in corso, quasi con il sogno di fermare per sempre la guerra in quell’Italia a servizio della quale essi combattevano. Noi stiamo facendo memoria di un sacrificio perché la memoria non va cancellata: non va cancellato il ricordo delle vittime della guerra; non va cancellato il ricordo della guerra, affinché rappresenti una concreta spinta verso la pace. Nell’Eucaristia, la memoria acquista valore di preghiera, di intercessione, di supplica. Essere qui è prima di tutto affidare quei caduti al Signore della vita, alla dolcezza della Madre di Dio, alla fede nell’eternità. Ed è, anche se a cento anni di distanza, come il Presidente della Repubblica ha affermato in questo luogo qualche giorno fa, un modo per «non dimenticare gli affanni e i patimenti di tanti rimasti in vita: penso – egli ha detto – ai numerosissimi mutilati e al loro difficile reinserimento nella società, al gran numero di prigionieri di guerra, che subirono stenti e incomprensione, alle donne vedove e madri, caricate di nuove e pesanti responsabilità, agli orfani, ai tanti genitori sopravvissuti con dolore ai propri ragazzi, ai profughi, alle persone che la guerra ridusse in miseria»[1]. La Parola di Dio, oggi, ci fa rivivere quelle sofferenze e quei lutti attraverso gli occhi di due madri, anzi di due vedove che, nel Vangelo (Lc 7,11-17) e nella prima Lettura (1Re 17,17-24) piangono la sofferenza e la morte del figlio unico. «Tutto è perduto!». È come se si levasse questo grido dalla loro voce e, allo stesso tempo, in esso riecheggiasse quel grido che qui si levò cento anni fa. «Tutto è perduto» perché non sembra esserci più speranza per una madre vedova che perde l’unico figlio e che, con esso, non solo perde ogni affetto che doni senso alla vita ma anche, come era in Israele per le donne rimaste sole, ogni possibilità di vita e di sussistenza economica, ogni identità e dignità. «Tutto è perduto» perché davvero – come ha concluso il Presidente Mattarella «la guerra è un moltiplicatore di lutti e di sofferenze»[2] ma anche, dobbiamo ricordarlo, di devastazione, di distruzione, dunque di povertà. Eppure, il Vangelo, così come la prima Lettura, riscattano proprio alla fine quelle madri vedove, aprono una strada di vita persino nella morte. E lo fanno in entrambi i casi, se ci pensiamo bene, grazie a un incontro: la vedova di Zarepta incontra il profeta Elia; la vedova di Naim incontra Gesù. È un incontro che dona lavita, che salva dalla morte! Quante madri, ancora oggi, piangono i propri figli, vedendo per essi e per loro stesse ormai sbarrata la porta della speranza! Penso a tante madri che vivono l’ora della sofferenza fisica ma anche a quelle madri e padri che assistono inermi al dramma di figli che si fanno irretire dalla criminalità organizzata, avvinghiare dai lacci dei paradisi artificiali, ingannare da quella corruzione che rovina altre vite umane, istradare sui sentieri della violenza e della vendetta; infine, penso a quella madri e a quei padri che vedono i propri figli abusati nel corpo, usati come materiale di commercio, scomparsi tra le onde dei mari dove essi cercano la fuga, profughi della fame, della guerra, della persecuzione… Sono madri che piangono, come quelle della prima Guerra Mondiale, come le vedove di cui la Parola di Dio ci ha parlato. Eppure la strada della vita si può ancora aprire, per molte di loro, grazie a un incontro, a uno di quegli incontri che si rivelano salvifici. Penso a coloro che hanno incontrato e incontrano voi, cari Granatieri di Sardegna, impegnati nel supporto a operazioni di difesa e protezione di tanti innocenti vite umane, in Italia come in tante Missioni estere di sostegno alla pace! Penso ai tanti militari che quotidianamente, nel silenzio della loro opera che sovrasta il rumore delle polemiche, continuano imperterriti a salvare le vite dei migranti nei nostri mari, restituendo, quando sia possibile, le vite dei figli a molte madri e padri e le vite delle madri e dei padri a molti figli…   Carissimi fratelli e sorelle, sempre, tra le pagine della sofferenza e della morte, anche tra le pagine della guerra, sono scritte misteriosamente parole di misericordia, mediate da un incontro che si fa portatore di vita, rispettoso della vita, in ogni fase e situazione. Mi colpisce che, assieme la Parola di Dio che parla della morte, San Paolo, nella seconda Lettura (Gal 1,11-19), faccia riferimento al Dio che lo ha scelto «fin dal grembo materno». È un riferimento alla vita, che Dio Creatore dona e che ci fa unici e irripetibili, fin dal primo istante del concepimento: creati e amati ciascuno con un amore unico, come è l’amore delle madri e come è l’amore di Dio per ogni persona umana; quella vita che solo Cristo salva dalla morte, anche quando la morte ne sembrasse il destino certo. Pregare ricordando la guerra significa chiedere perdono per tutte le volte che si nega il valore della vita: quella dei caduti, quella di tutte le vittime della violenza; quella di coloro che, qui come in altri luoghi, si sono spesi e si spendono a servizio della giustizia, della difesa, della pace. Ci ricordi, la Celebrazione di oggi, la sacralità della vita di ogni persona umana: quella piccola nel grembo materno, quella sofferente che si avvicina al tramonto, quella innocente che non va mai soppressa, esclusa, scartata. Ce lo ricordi anche grazie a voi, cari Granatieri: sì, grazie a voi, perché avete scelto la vita, la sua difesa e protezione, il riconoscimento della sua dignità. Ci ricordi che, come ama ripetere Papa Francesco, solo la «cultura dell’incontro», che vince sulla «cultura dell’indifferenza e dello scarto», può restituire la vita: grazie a un incontro che è portatore di carità, di misericordia e di pace. Il Signore vi benedica e vi doni pace.X Santo Marcianò

Arcivescovo

     


[1] Sergio Mattarella, Discorso al Sacrario Militare di Asiago, 24 maggio 2016
[2]Ibidem