Omelia nella celebrazione nel X anniversario di Ordinazione Episcopale

26-07-2016
 Assisi – 16 giugno 2016  

 «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice». Carissimi, con le parole del Salmo 15 mi sembra di poter rileggere il dono e mistero che, in questi dieci anni, il Signore mi ha concesso di vivere nel ministero episcopale. È per Lui il primo grazie, nel grazie di questa Eucaristia che è memoria, invocazione, comunione profonda e commossa con i miei presbiteri. L’altro grande grazie, dunque, è per voi, per ciascuno di voi cari sacerdoti. Perché, se è vero che la comunione, in quanto persone umane, ci dona l’indentità, è vero che l’identità di un vescovo non può essere capita e accolta pienamente senza il rapporto con il suo presbiterio. C’è poi un grazie a Francesco: il Signore ha voluto che questa Celebrazione avvenisse in questa Basilica, sulla sua Tomba, aiutandomi e aiutandoci a confrontare il nostro ministero con la sua fede profonda e coerente, con la sua carità concreta e ricca di povertà, con la sua speranza umile, fondata unicamente sulla Croce di Cristo. «Il Signore…». Le prime parole del Salmo sono l’inizio della mia storia e di ogni vocazione. Sua è l’iniziativa, Suo il Progetto, Sua la grazia. E Sua l’«eredità»; anzi, è «Lui» l’eredità, la «mia parte di eredità». Nella comune esperienza umana, l’eredità è il dono più grande che si possa ricevere, non tanto per il valore talora elevato dei beni ereditati ma in quanto rappresenta, in certo senso, l’ultimo pensiero che la persona rivolge alla vita, affidando qualcosa che desidera rimanga oltre la sua vita, oltre la sua morte. Un dono, cioè, che possa spravvivere alla morte, vivendo in chi lo riceva. «Il Signore è mia parte di eredità»: Lui non è solo l’origine di ogni dono – «Tutto mi è stato dato dal Padre mio» esclama Gesù nel Vangelo (Mt 11,25-30) – ma è il contenuto del dono, è “il”Dono! E Lui desidera che il mistero del sacerdozio, di cui il ministero episcopale è pienezza, faccia vivere qualcosa di Se stesso: la cosa più grande, che Egli ha donato con la morte e che desidera far vivere oltre la morte.   Quando, dieci anni fa, il Signore mi chiamò a questo servizio nella Chiesa, sentii che esso era per la “Sua” grandezza; grandezza che, con Maria, trovavo nella Parola che poi divenne il mio motto episcopale: «Magnificat!». E le Letture ascoltate oggi, che la Chiesa propone nel “proprio” di San Francesco d’Assisi, sembrano quasi uno specchio di quel canto che la Vergine elevò a Dio. «Dio ha guardato l’umiltà della sua serva…», canta esultante Maria. «Ti rendo lode perché hai rivelato queste cose hai piccoli…», esclama Gesù. La piccolezza è approdo dello sguardo di Dio, è il tramite del Suo rivelarsi; è, concretamente, ciò che “fa grande” Dio. E la piccolezza fa grande Dio, come canta Maria e come insegna Francesco, è il «servire»: servire tutti, servire sempre. Sì, è il Tuo essere Servo, Signore, la parte di Te che diventa la mia eredità, l’eredità di ogni pastore: un’eredità che arricchisce e libera, che fa crescere nell’amore, che dona senso e identità al ministero, misurandone la capacità di comunione con Te e con i fratelli. Un’eredità che, ogni giorno, ritroviamo nel Tuo calice.   «Il Signore – canta ancora il Salmo – è mio calice», il calice nel quale, ogni giorno, ogni sacerdote riversa il sangue del suo popolo, perché diventi il Sangue di Cristo. Ricordo che nella prima Omelia, dieci anni fa, citavo Joseph Ratzinger, quando affermava di aver compreso il senso del proprio essere vescovo il giorno dell’ingresso in diocesi, guardando la sua gente e decifrando la loro attesa. Nel corso del tempo, però, mi ha spesso sostenuto anche l’esperienza spirituale del cardinale Van Thuan il quale, tra le sofferenze dei tredici anni vissuti in prigionia, ritrovò il senso del proprio episcopato in una goccia di vino che, ogni giorno, gli permise di consacrare per il suo popolo e di consacrare il suo popolo. Quanta sofferenza, a volte, nel nostro ministero! Quanto fallimento nel non poter arrivare a tutti o nel non ricevere accoglienza, nell’affrontare ostacoli insormontabili o nello sperimentare tanto dolore in noi stessi e, ancor più, nella carne di coloro che ci sono affidati e che sentiamo figli. Eppure c’è un calice che, come il Cuore di Cristo, contiene e accoglie tutto: il nostro sangue di pastori come pure il sangue della nostra gente. «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò»! Penso al “sangue” della gente semplice, che incontravo nelle contrade più periferiche della diocesi di Rossano, o ai nostri militari, che ho imparato ad amare con tutto il cuore e dei quali il sangue è spesso versato anche per il dono che essi fanno della propria vita… Che dono poter consegnare, ogni giorno, tutto questo sangue all’altare, assieme al Sangue che sgorga dalla «Croce di Cristo», l’unica cosa di cui vantarsi, come dice bene Paolo nella prima Lettura (Gal 6,14-18) e come spiega con la vita Francesco! Che dono poter essere sicuri, con il Salmista, che il Signore è, deve essere, l’unico «rifugio»: nei momenti dolorosi e difficili ma anche nelle gioie intime e stupende che il ministero pastorale può offrire! Quelle gioie nelle quali sperimentiamo davvero l’esultanza stupita del Magnificat e del Cuore di Cristo: un Cuore «mite e umile»; un Cuore che “è”, letteralmente, «Misericordia».  È per me un altro segno della tenerezza di Dio: celebrare questo decimo Anniversario nel Giubileo della Misericordia e potervi anche consegnare la Lettera Pastorale scritta per questa occasione. La misericordia, potremmo dire, è «eredità e calice» del pastore ma, come scrivo nel titolo della Lettera, è pure una «carezza». È una carezza che riceviamo da Dio e diventa, così, il criterio interpretativo del Vangelo di Cristo e di tutta la storia umana. Non si può leggere il Vangelo se non alla luce di quella misericordia che è «il Nome, il Volto, il Cuore di Dio» e, allo stesso tempo, è anche «il nostro volto, il nostro nome, il nostro cuore». La misericordia, ricevuta da Dio, ci fa infatti simili a Lui e, per questo, capaci di diventare noi stessi «carezza» per l’uomo. Le «opere di misericordia» sono questa «carezza» che, nella sua concreta evidenza e nella sua profondità invisibile, ci permette anche di «scrivere» il Vangelo. Sì, cari confratelli, il Vangelo è ancora da scrivere e, in ogni istante, ogni creatura umana può aggiungere una pagina, una parola, una virgola alla Bella Notizia che Cristo ha portato nel mondo e ha affidato, come preziosa eredità, ai Suoi pastori e a tutta la Chiesa. La Chiesa esiste per questo: per testimoniare che ogni vicenda umana si può riscrivere alla luce del Vangelo, che ci fa scoprire e suscitare la misericordia in tutte le realtà, anche in quella militare. Indicendo un Giubileo Straordinario, Papa Francesco ha voluto gridare al mondo che la misericordia è un cammino di conversione, di comunione e, non ultimo, è un cammino di gioia: i misericordiosi sono felici, «beati». Ed è per questo che, nella Lettera, ho voluto individuare le «beatitudini» che possono sgorgare dal vivere come «opere di misericordia» alcuni compiti propri del mondo militare, quel mondo che siamo chiamati a «servire», dal quale dobbiamo tanto imparare, al quale desideriamo portare anche noi la «carezza» di Dio. Perché una «carezza», come ci insegna Francesco nel suo incontro con il lebbroso, può cambiare la vita, può cambiare la storia, può «riparare» le ferite dell’anima e le stesse ferite della Chiesa.   «Date una carezza!». Al termine di questa Liturgia Eucaristica, risuonano di una commossa intensità le parole indimenticabili di Papa Giovanni, Santo da noi particolarmente amato e, per me, modello di pastore e sostegno nell’episcopato, soprattutto del ministero di Ordinario che, per dono della Provvidenza, iniziavo proprio alla Vigilia della sua Festa. Carissimi confratelli, grazie per la «carezza» che voi sapete dare ai nostri cari militari, dai più alti gli ufficiali ai più piccoli e poveri, che senza di voi il vescovo non potrebbe raggiungere. Grazie per la carezza che imparate a donarvi l’un l’altro, in quella fraternità presbiterale che costruisce la Chiesa e rende gioioso il cuore del vescovo. Grazie, infine, per la carezza che date anche al vescovo, per l’affetto e la preghiera, per la comunione e la consolazione che sostengono il mio ministero e disegnano in me il volto e l’identità del pastore. E grazie a Te, Signore, perché è in una «carezza» che riesco a rileggere il volto che hai disegnato nel mio ministero episcopale. Quella carezza che, in questi anni, hai voluto donare a me e hai voluto essere per me, accompagnando i miei passi, perdonando le insufficienze, abitando la profondità della preghiera. Quella carezza che, oggi, è «eredità» in cui raccogliere le «grandi cose» da Te ricevute e «calice» nel quale versare quanto, con Te e in Te, ho cercato di donare. Nella gioiosa certezza che mi fa cantare, con il Salmo dell’affidamento e dell’abbandono: «Nelle tue mani è la mia vita». Sì, nelle Tue mani è la mia vita, Signore! Ieri, oggi e sempre. E coì sia!  X Santo Marcianò

Arcivescovo