Omelia nella celebrazione presso la Chiesa S. Maria ad Marthyres – Pantheon

20-02-2014
1 novembre 2013 – Solennità di tutti i Santi
 
 
Carissimi fratelli e sorelle,
 
con commozione e gioia, con gratitudine al Signore, porgo a tutti un caro saluto.
Saluto con grande affetto i sacerdoti concelebranti: l’Arciprete, Monsignor Micheletti, tutto il Capitolo di questa Basilica, i cappellani; sono contento di trovarmi con voi, nel giorno in cui la Chiesa celebra il mistero della santità, per la prima Messa Solenne che ho la gioia di presiedere come vostro Ordinario. Ed è un segno forte: la santità, infatti, è l’essenza del sacerdozio, la ragione più profonda, la ricompensa che ci aspettiamo e che Dio, giorno dopo giorno, anche quando non ce ne accorgiamo, continua ad elargirci. Se essere prete significa essere un alter Christus, come potrebbe non significare essere santo?
Ma la santità, ovviamente, non è un’esclusiva del sacerdozio, è l’identità stessa di ogni cristiano. Ed è con questa certezza e con questo augurio che saluto tutti: le autorità, i militari con i familiari e gli amici, i fedeli e anche i turisti che, magari per caso, sono presenti in questa splendida Chiesa, affidata alla cura dell’Ordinariato Militare.
 
Si tratta di un tempio che racchiude in sé una storia straordinaria: documenta il tempo degli idoli pagani, le fastosità dell’impero romano, l’epoca della monarchia italiana… racconta una storia in realtà non sempre bella, ricca di contraddizioni, come il cuore dell’uomo; una storia che non può lasciare indifferenti.
Entrando qui, in un certo senso, la storia si tocca con mano ma, in modo singolare, di questa storia si percepisce un sottofondo di bellezza. Questo tempio pagano, questo sacrario nel quale sono racchiuse tante fatiche e pure tante atrocità – sappiamo che vi riposano le ossa di tanti martiri -, questo luogo di contrasti, appare bello non solo per lo splendore della sua arte ma perché, trasformato in Chiesa, diventa testimonianza di una storia riscattata, guidata, custodita, trasformata da Dio.
Sì, cari amici, Dio è il Signore della storia! E la vita cristiana ci rimanda sempre a vivere la storia, ad abitare la storia; a leggere nel concreto i segni dei tempi ma a leggerli non ascoltando le voci dei «profeti di sventura» – dai quali ci metteva in guardia un grande cappellano militare, il nostro amato Papa Giovanni – ma dalla prospettiva della bellezza, della «bella notizia» che è il Vangelo.
La sfida della bellezza insegue la storia umana e noi siamo chiamati ad essere “operatori di bellezza” in questa storia.
Come farlo?
 
Una risposta ci è suggerita da un’altra ricorrenza che celebriamo: oggi, infatti, questa Chiesa ricorda la sua dedicazione, un atto che, nella Liturgia, assume una particolare solennità. È la festa della Chiesa che si mette a servizio della storia per, potremmo dire, dedicare la storia stessa a Dio.
Il mistero di questo luogo nel quale ci troviamo è il mistero stesso della Chiesa. Ma la Chiesa, come sappiamo, non è solo un luogo fisico, non è semplicemente un tempio in quanto edificio. La Chiesa è il popolo di Dio; le pietre, come dicono i Padri della Chiesa, sono i cristiani che formano un edificio tenuto insieme dalla carità, dall’amore.
È bello che l’Ordinariato Militare sia una Chiesa particolare, sia una diocesi: questo ci conferma che non solo la storia umana ci è affidata ma anche la storia della Chiesa, verso la quale, dunque, noi abbiamo una grande responsabilità.
Noi siamo Chiesa. E la Chiesa, con il suo annuncio del Vangelo, con la sua carità, con la celebrazione dei sacramenti, in particolare con l’Eucaristia, diventa strumento di salvezza; diventa, cioè, il tramite attraverso il quale Cristo è presente, vivo e operante nel mondo e la storia del mondo viene offerta, consacrata, dedicata a Dio.
Ed è nel proprio nel mistero della dedicazione, di una storia dedicata a Dio, che si può inquadrare il mistero della che la Solennità di oggi ci invita a contemplare: la santità. La santità è la storia, è la mia storia, dedicata a Dio. La santità è il senso della storia ma è anche – ed è qui il suggerimento della Parola di Dio – la gioia possibile alla storia.
 
La parola «gioia» fa da sfondo alla Liturgia di oggi. E, a un ascolto attento delle Letture, ci colpisce cogliere come si parli di «gioia» più che di «santità». E si parla di una gioia, potremmo dire, allo stesso tempo realistica e paradossale; non una gioia eterea o ipotetica, ma piuttosto una gioia incarnata in tutte le circostanze che la Parola di Dio descrive e che rispecchiano in modo inequivocabile e schiacciante le situazioni reali della vita dell’uomo.
Questa gioia esplode nel Vangelo delle beatitudini: «beati», cioè felici, gioiosi.
Beati! Non è né un invito né un’opzione: è un dato di fatto. È una realtà, quella della gioia, dalla quale non possiamo fuggire, così come non possiamo fuggire dal dolore, dalla difficoltà, dai tormenti, dalle responsabilità, dalle scelte… a tutto questo, la gioia è inspiegabilmente legata. Ed è interessante notare che, tra le beatitudini enunciate dall’evangelista Matteo, alcune mettono in luce la gioia come la possibilità di ottenere in futuro qualcosa che non si è avuta al presente, come la consolazione per chi piange, altre promettono la pienezza di beni che la persona ha di fatto scelto e già compie, come la misericordia per i misericordiosi.
Chiediamoci dunque: perché siamo nella gioia, perché siamo santi?
 
Anzitutto, siamo santi in quanto apparteniamo a Dio.
Non è facile commentare le parole di Gesù senza correre il rischio di ricadere nei vittimismi o nei moralismi o senza considerarle un traguardo irraggiungibile. Non è così: le beatitudini, la gioia, la santità sono, in un certo senso, il DNA, il codice genetico della vita cristiana; sono un’identità. Con quanta forza anche Papa Francesco ce lo sta ricordando in questi ultimi tempi!
«Del Signore è la terra e quanto contiene, il mondo con i suoi abitanti»: nel Salmo 23 la gioia è appartenere a Dio. Appartiene a Dio il mondo, tutti gli uomini: appartengono a Dio i poveri in spirito e quelli che sono nel pianto, i miti e quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi e i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati per la giustizia; apparteniamo a Dio noi.
La beatitudine, dunque, è la nostra identità perché la nostra identità di cristiani, il nostro DNA, è appartenere a Dio.
C’è un legame profondo tra identità e appartenenza: è l’appartenere ad una famiglia, ad un popolo, ad una cultura che ci dona l’identità. Ma questa appartenenza non è legata al potere, alla costrizione, perché l’uomo è un essere libero e non è proprietà di nessuno.
Si tratta, come amo spesso ricordare, di «un’appartenenza nell’amore». Sì, noi apparteniamo perché siamo amati.
 
E siamo santi perché amati da Dio.
«Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente»!, esclama San Giovanni nella seconda Lettura. È così che noi apparteniamo al Signore, come figli.
E la gioia di essere figli di Dio ci contiene e ci rassicura fin da adesso; non è una consolazione che, semplicemente, ci rimanda al futuro e non è neppure illusione: «Ciò che saremo non è stato ancora rivelato», scrive Giovanni, ma certo questo sarà uno svilupparsi del nostro DNA di figli.
L’essere umano è impastato di povertà, di fame di ingiustizie, di persecuzioni, di soprusi… anche il tempo presente è gravido di tutto questo e, se vogliamo essere attenti ai segni dei tempi, se vogliamo essere incarnati nella storia, non possiamo leggere le beatitudini senza tenerne conto.
Noi, potremmo dire, “siamo” quello che “soffriamo”, i nostri fratelli sono quello che soffrono; ma – ecco la beatitudine – siamo sotto lo sguardo Paterno di Dio che non può lasciare al male, all’ingiustizia, alla fame l’ultima parola, perché non può abbandonare i suoi figli!
La beatitudine è lo spazio che, nella realtà a volte dura e drammatica della nostra vita, Dio conserva sempre. È lo spazio per l’azione di Dio, il cui riflesso percepiamo quando nella sofferenza viene la forza, quando nelle difficoltà arriva l’aiuto, quando nello sconforto siamo accompagnati da una mano… quando sentiamo o anche quando offriamo il tocco della carità.
 
Ecco, allora, che noi siamo santi perché amiamo come Dio.
Ci è forse più difficile vedere la gioia emergere dal quadro tremendo di cui parla il Libro dell’Apocalisse. C’è una «devastazione», c’è una «grande tribolazione»; ma c’è anche un grande inno di lode e di adorazione a Dio, c’è una gioia che ci raggiunge personalmente e, allo stesso tempo, riguarda una «moltitudine», cioè tutti. Una gioia che potremmo vedere raffigurata nel cosiddetto «sigillo del Dio vivente», con il quale sono segnati coloro che scampano alla «devastazione», e nella «veste candida» con la quale sono rivestiti coloro che hanno superato la «grande tribolazione». Questa «veste candida», dirà in un altro passo lo stesso Libro dell’Apocalisse, è di coloro che «seguono» l’Agnello, cioè che vivono come Gesù.
Le beatitudini, cari amici, sono possibili se noi diventiamo strumenti di questa beatitudine, rivestendo la veste candida della fede, della speranza e, soprattutto, della carità, dell’amore fraterno. La santità non è una questione privata dei più bravi: è vocazione personale ma, allo stesso tempo, è un gran mistero di comunione, per il quale c’è bisogno che tutti diventiamo, per così dire, «operatori di beatitudine» gli uni per gli altri. E la Festa di oggi ci inserisce in modo particolare in questa dimensione, invitandoci a guardare alla santità come un mistero della Chiesa, come una vocazione universale.
Strumenti di beatitudine, dunque, facendoci noi stessi consolazione, misericordia, giustizia, purezza, pace, sull’esempio e con la forza del Figlio di Dio.
Ecco, quindi, che le beatitudini che sono un dono e un’identità per tutti i cristiani e anche per i militari, delineando un cammino di santità sulle orme dei santi e beati della nostra Chiesa che sono per noi un prezioso patrimonio di testimonianza, di accompagnamento, di intercessione.
Le beatitudini sono le «armi» che lo Spirito Santo ci dona per combattere il male, la violenza, la guerra, la povertà… tutte le situazioni che chiedono il contributo delle Forze Armate.
Penso, in particolare alla «giustizia» della quale, dice il Vangelo, dobbiamo avere «fame e sete»; a servizio della quale, cioè, dobbiamo mettere tutto, anche il nostro corpo, non come strumento per esercitare la forza, per prevaricare, ma come dono di noi stessi. E penso alla pace, così fragile ma così necessaria, che ci è affidata in quanto «figli di Dio». Una pace che sempre di più dobbiamo imparare a costruire ritrovando, nel cuore e nei gesti, il senso della fraternità umana e imparando sempre più a camminare in esso.
 
Carissimi fratelli e sorelle,
 
la santità è l’identità che abbiamo, è l’amore che riceviamo, è l’amore che doniamo. È la vocazione che ci fa essere, come dicevamo all’inizio, «operatori di bellezza» nella storia, perché la nostra storia diventi, come questa splendida Chiesa, riscattata, guidata, custodita, trasformata dal Signore.
Che nella storia ciascuno di noi, con la preghiera e la carità, diventi un tempio «dedicato» a Lui nel quale, per la nostra santità, risplende la Bellezza e la Santità di Dio.
E così sia!
 
  X Santo Marcianò