Omelia per il 70° anniversario della battaglia di Montecassino

19-05-2014

Abbazia di  Montecassino, Domenica 18 maggio 2014 Omelia dell’Ordinario Militare per l’Italia Carissimi fratelli e sorelle,   concludiamo, con questa Eucaristia, il percorso iniziato una settimana fa per le celebrazioni del 70° anniversario della battaglia di Montecassino. E, se è vero che quello di questi giorni è stato – come proponevamo all’inizio – un pellegrinaggio, è anche vero che il pellegrinaggio, nella vita cristiana, è una condizione permanente, un nostro stato creaturale, una dimensione necessaria: anzitutto per non fermarci nel cammino, per non arrenderci dinanzi a difficoltà e fragilità, sofferenze e cadute; poi, per non dimenticare che la nostra patria è il cielo. Gesù, nel Vangelo (Gv 14,1-12), fa riferimento alla «casa del Padre» dove «vi sono molte dimore» e dove lui va per «prepararci un posto». La direzione che il nostro pellegrinaggio oggi prende è dunque, potremmo dire, quella di un ritorno a casa! E non solo perché la manifestazione di questi giorni si conclude. Il cielo è la nostra patria perché la casa del Padre è la nostra casa. È bella questa sorta di identificazione tra casa e patria che, nel luogo e nell’evento che ricordiamo, assume particolare forza evocativa. Qui si combatteva per la patria, lasciando la propria casa. Qui si resisteva per difendere quella libertà che fa di ogni patria una casa. Qui, in particolare in questo Monastero, si rifugiavano, trovavano casa, anche coloro che non avevano più casa. È il messaggio che vogliamo raccogliere e portare con noi affinché, in modo concreto, si traduca in cultura: cultura del servizio, cultura della vita, cultura dell’accoglienza.   Qui, dicevamo, molti hanno combattuto per la patria, lasciando anche la propria casa. Hanno cercato quel «bene comune» che è più grande dei beni personali, non perché li escluda o li rinneghi ma perché li comprende. «Il tutto è superiore alla parte», scrive Papa Francesco nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, invitandoci ad «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi»[1]. Perché patria e casa coincidano, non basta essere dei cittadini, anche buoni e responsabili. Occorre, a mio avviso, quanto il Santo Padre sostiene essere la base del bene comune: «diventare popolo»; impegnarsi nella «costruzione di un popolo in pace, giustizia, fraternità»[2]. C’è di mezzo una realtà di popolo, un’identità di popolo che è identità di cultura, tradizioni, storia. E c’è di mezzo quella peculiarità dell’umano per cui ogni persona e ogni popolo esiste e si realizza in relazione con l’altro, con il diverso, con la comunità. In questa luce, trova spazio la logica che, pur giungendo ai limiti estremi del sacrificio di ciò che è più personale – come la casa, la famiglia, la stessa vita -, nasce, tuttavia, dalla semplice e concreta esperienza del servizio. La prima Lettura (At 6,1-7) narra di un problema di interessi particolari sorto nella prima comunità di Gerusalemme. I discepoli di lingua greca mormorano contro quelli di lingua ebraica perché si sentono, in qualche modo, trascurati. La risposta degli apostoli è molto interessante: non da peso alle differenze tra i due diversi popoli ma invita ciascuno a cercare, al suo interno, persone disposte a servire tutti! Vengono così istituiti i diaconi, coloro, cioè, che nella comunità sono deputati a quel servizio che deve giovare al bene comune, perché il primato della carità non può essere sacrificato mai, neppure rispetto all’insegnamento della Parola. E questo non certo perché la Parola di Dio non sia essenziale ma perché non c’è autentico insegnamento che non vada accompagnato dalla carità e perché il servizio alla persona è il cuore del Vangelo.   A volte – in questo luogo ciò si è sperimentato – la via del servizio si concretizza nella difesa, in particolare qualora siano lesi i fondamentali diritti umani, specie i diritti dei poveri, degli ultimi, dei piccoli, di coloro che non hanno voce; qualora sia lesa quella libertà che fa di ogni patria una casa. Il mondo militare non deve difendere confini, deve difendere fratelli! E il vero bene comune supera l’idea territoriale di patria e approda a un senso di universale fratellanza. È il messaggio racchiuso nella seconda Lettura (1Pt 2,4-9), dove sembra echeggiare il grido contro quella che Papa Francesco, con sapiente incisività, chiama la «cultura dello scarto»[3], cioè contro le prevaricazioni in nome di discriminazioni di sesso, razza, cultura, religione, nonché contro tutti gli attacchi alla vita e dignità umana. Gesù è qui descritto come la «pietra «rifiutata dagli uomini», «scartata dai costruttori» ma considerata «pietra d’angolo», «scelta e preziosa» per Dio; in essa, cioè nel Cristo, si riflettono tutti coloro che sono gli scarti, i rifiuti della nostra società. Nei giorni di cui facciamo memoria, l’umanità era scossa da una delle più evidenti e assurde discriminazioni della storia, in cui con fredda determinazione si scartavano dal mondo gli appartenenti ad alcune categorie e razze, in particolare al popolo ebraico; una tragedia che, senza voler entrare nel tema, presentava molti volti inquietanti, non ultimo l’indifferenza nella quale il mondo sembrava paralizzato. La discriminazione è sempre ingiustificata, così come la lesione dei diritti umani; e, se è vero che la guerra è sempre ingiusta, è vero che la difesa è talora commisurata e spesso necessaria, proprio per superare l’indifferenza verso persone e popoli spesso dimenticati. Come in un assurdo paradosso, diritti fondamentali vengono ancora conculcati, spesso in nome di una libertà presunta e con la complicità di coscienze accecate. E non stupisce che sia stato un uomo come Giovanni Paolo II – del quale, tra l’altro, proprio oggi ricordiamo il giorno della nascita – a levare alta la voce, alla fine del terzo millennio, a difesa del «diritto fondamentale alla vita». Egli, che nella sua Polonia perseguitata aveva potuto imparare le conseguenze strazianti di ogni genere di totalitarismo, si rendeva conto che questo crimine può essere facilmente rintracciato ancora oggi, se guardiamo a quel «numero sconfinato di bimbi cui viene impedito di nascere, di poveri cui è reso difficile vivere, di uomini e donne vittime di disumana violenza, di anziani o malati uccisi dall’indifferenza o da una presunta pietà»[4]. Perché la patria diventi casa non basta, dunque, essere popolo. Bisogna essere – come egli stesso esortava – «popolo della vita e per la vita»[5]. Bisogna, potremmo dire, che la cultura della vita vinca sulla cultura dello scarto!   È quanto è avvenuto qui, in particolare in questo Monastero diventato, fra gli orrori della guerra, casa per chi non ha casa. È il messaggio antico e nuovo dell’accoglienza, la cui urgenza sentiamo prorompere ogni giorno, mentre i fatti di cronaca pongono continuamente dinanzi ai nostri occhi e al nostro cuore realtà drammatiche di migranti in fuga, spesso maltrattati, rifiutati, o decimati prima ancora di arrivare a dei porti considerati sicuri. La lezione di Montecassino per noi è anche questa: essere popolo accogliente. Mi verrebbe di dire, essere popolo fedele alla sua identità italiana, che ha l’accoglienza come caratteristica umana, culturale e, non ultimo, come frutto della sofferenza di aver patito in prima persona la discriminazione e il rifiuto, la condizione umiliante di essere stranieri in un mondo di fratelli. Sì. Che nessuna strategia bellica, che nessuna opportunità politica, che nessun calcolo economico cancelli questa vocazione e questa nostra profonda identità: l’accoglienza! Un’accoglienza che mi piace riassumere con le parole di Gesù nel Vangelo: «Quando vi avrò preparato un posto… vi prenderò con me perché dove sono io siate anche voi». È proprio vero. Accogliere è aprire le porte del cuore, della condivisone, della compassione. È non solo “preparare il posto” per l’altro ma “essere dove è l’altro”: è su questa esigente verifica che si misura una società, un popolo, anche una Chiesa accogliente. Non è facile ma è ancora il Papa a suggerirci una via per realizzare questo: «l’unità è superiore al conflitto»[6], sostiene Bergoglio, ricordando che non bisogna lavarsi le mani dinanzi al conflitto, né lasciarsi imprigionare da esso, ma che occorre entrare nel conflitto e cercare di «risolverlo e trasformarlo», per poter «sviluppare una comunione nelle differenze»[7]. La patria diventa casa se si abita insieme! E la Liturgia oggi ci ricorda che di questa casa, che si chiama Chiesa, noi siamo le «pietre vive», tutte diverse ma tutte essenziali perché l’edificio sia solido e risplenda della sua autentica e completa bellezza. Come il Monastero riedificato!   Carissimi fratelli e sorelle, mi piace chiudere il nostro pellegrinaggio così, invitandovi a ripartire lungo la via pulcritudinis, la via della bellezza. Essa è visibile in ogni espressione dell’umano ed è percorribile sempre, insegnandoci che tutte le brutture, compresa la guerra, possono essere vinte, trasformate, trasfigurate se, ciascuno nel suo campo, tutti sappiamo essere artefici di una cultura del servizio, della vita, dell’accoglienza. Così, si spalanca gradatamente la via del nostro cammino verso «casa»: verso la Bellezza di quella patria del cielo che appare più vicina, perché non è l’opposto della terra ma, già da oggi, ne è l’orizzonte, la continuazione, la pienezza. E così sia!   X Santo Marcianò  


[1] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, nn. 234-237
[2] Cfr. Ibidem, nn. 220-221
[3] Ibidem, n. 53
[4] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Evangelium Vitae, n. 105
[5] Ibidem, n. 6
[6] Cfr. Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, nn. 226-230
[7] Ibidem