Roma, Omelia Ospedale Militare del Celio, 4 aprile 2022

04-04-2022

È un dono ed è significativo celebrare l’Eucaristia in preparazione alla Pasqua in questo luogo che è un luogo di sofferenza e di speranza. Una speranza di cui c’è grande bisogno, specie accostandosi alla malattia, a ogni forma di dolore umano.

La nostra cultura rifugge il dolore, cerca di ignorarlo e rimuoverlo; lo considera un incomodo nella realizzazione personale, nella carriera lavorativa, nella libertà di azione, come pure nell’organizzazione sociale e nelle scelte economiche. Così, come sappiamo, spesso anche le leggi civili prendono questa deriva, e cercano di eliminare il dolore eliminando la persona che soffre, privilegiando, ad esempio, il diritto a morire rispetto al diritto alle cure.

In questo senso, è un rischio quanto accade in Italia, sul piano giuridico, soprattutto se si considera l’esperienza di altri Paesi, dove si è palesato con chiarezza il “piano inclinato” che va dalla richiesta di eutanasia in casi estremi fino al suicidio assistito.

Siamo profondamente coscienti di come questa non sia una soluzione, anche perché il dolore rimane e rimarrà sempre nella vita terrena. Eliminare il malato, oserei dire in modo crudo, non “risolve il problema”, non elimina la malattia dall’esperienza umana.

E la soppressione di una vita non si può ritenere mai una soluzione – Mai! -. La persona vale infinitamente ed è sempre più grande, anche più grande della sua malattia.

Viviamo un tempo in cui il dolore ha assunto ancor più una dimensione planetaria. La pandemia, per certi versi, ha unito l’umanità nel dolore, le ha fatto sperimentare in modo drammatico come il destino di tutti gli uomini sia legato e come, tra le tante cose non essenziali, la vita si sia dimostrata un valore centrale, primario, da custodire e difendere.

Nel cuore di un’emergenza affrontata – in questo vostro ospedale e in tutte le realtà in cui le Forze Armate offrono un contributo – con competenza, coraggio instancabile, dedizione incondizionata, ci è stata offerta una lezione che non dovremmo dimenticare. Una lezione che appare ancor più seria oggi, mentre la catastrofe di una guerra inattesa e crudele sta creando una nuova emergenza nella quale tutti ci sentiamo coinvolti, in maniera diversa e peculiare, certamente, il mondo militare.

Ecco, voi vi fate carico di questo dolore, del dolore umano. E se è vero che non è possibile annullare il dolore, è altrettanto vero che il “farsi carico” si dimostra come l’unica risposta possibile. Ma come?

Provo a rispondere con le parole del famoso Salmo Responsoriale (Salmo 23), che si presentano come balsamo per l’anima, specie in momenti di difficoltà: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…»

In tutte le tradizioni antiche la figura del pastore è centrale. Pensiamo, ad esempio, alla cultura contadina, non troppo lontana da noi, dove chi ha un gregge possiede un tesoro ma sa che può custodirlo solo prendendosene cura personalmente. Il pastore e il gregge, per così dire, sono un’unica entità.

Nella Bibbia, la figura del pastore è ancor più significativa. Nell’antico Oriente, infatti, egli, per custodire il gregge, affrontava ogni forma di pericolo e, addirittura, il pastore era il compito affidato al sovrano scelto da Dio: il re doveva essere un pastore. Governare, potremmo dire, significava prendersi cura. Un concetto che tornerà in Gesù, il quale è Buon Pastore e Re dell’Universo. È Re in quanto Pastore.

«Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me».

Le parole del Salmo confermano dunque come la prima la risposta alla sofferenza, alla valle oscura del dolore, della malattia, della morte, stia nel prendersi cura, nel sentire accanto a sé qualcuno che si prende cura. Per capire il dolore, occorre anche guardare alla sofferenza di chi si prende cura, in diversi aspetti.

Prendersi cura è una prerogativa della famiglia, di coloro che stanno accanto ai malati, di figure nuove che, nel nostro tempo, li accudiscono, spesso sostituendo i familiari. Prendersi cura è una missione peculiare dei medici e degli operatori sanitari.

Se ci pensate, è proprio lo spessore del prendersi cura che conferma quanto sia vero che la persona vale infinitamente ed è più grande, anche della sua malattia.

Gesù spiegherà un tale prendersi cura con l’immagine del pastore che cerca ovunque la pecorella smarrita: immagine del peccatore, certamente; immagine della persona sofferente.

Anche voi vi caricate sulle spalle la persona ferita, l’umanità ferita. Andate a cercarla nelle difficoltà, vi interrogate sulla malattia, indagate e studiate i campi del sapere. E questo perché la persona vale, perché vale la sua vita.

Dall’altra parte, infatti, il Salmo fa riferimento alla vita. «Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce… Davanti a me tu prepari una mensa… Bontà e fedeltà mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita».

Grazie alla vicinanza del Pastore cambia il quadro: dalla valle oscura si passa alla serenità, a una sorta di luminosità che traspare anche dalle parole di Gesù nel Vangelo (Gv 8,12-20): «Io sono la luce del mondo».

Potremmo vedere qui l’esperienza della guarigione. Che dono, per voi, poterla offrire ai malati, talora ai malati gravi! Che dono poter alleviare il dolore, consentire una vita dignitosa!

Ma sappiamo che non sempre è possibile guarire. E ogni volta, per voi, questo è un dolore rinnovato.

Gesù, Buon Pastore, si presenterà come Colui che è venuto «perché tutti abbiamo la vita e l’abbiano in abbondanza». La vita umana rimanda sempre a un “di più”, a un’abbondanza, che potremmo interpretare come il “senso” della vita.

La professione medica, in fondo, si fa testimone di questo “di più”. Testimone di senso. Segno che è necessario e possibile trovare e ritrovare il senso della vita, anche nel dolore.

Il Buon Pastore porta la vita in abbondanza perché Egli stesso dona la vita. E la «mensa» a cui il Salmo fa riferimento ci ricorda l’Eucaristia, il dono di Sé che Gesù compie, come ricorderemo tra qualche giorno, il Giovedì Santo

Accade così anche a voi, io stesso l’ho sperimentato in questo luogo. Accade che i medici e gli operatori sanitari si lascino “mangiare”, diventino cibo; perché si offrono senza sosta, senza risparmiarsi, per curare a dare la vita agli altri, con amore e per amore.

Non lo dimenticate: anche quando non riuscite a guarire, quando vedete dinanzi a voi la sofferenza più acuta, quasi la disperazione; anche quando non potete dire a parole quale sia il senso della vita, voi spiegate questo senso; donando la vita.

Cari amici, è la lezione che ci date e che tutti dovremmo imparare, specie da momenti quali le difficoltà e le emergenze, le guerre e le pandemie: la vita ha senso nel dono di sé!

Questo dare la vita vi usura, consuma le vostre forze. Ma non vi ferma.

Davanti a voi, infatti, c’è il Buon Pastore, che vi accompagna, vi guida sulle vie della vita e vi dice grazie perché, con il dono della vostra professione, della vostra missione, della vostra esistenza, Lo aiutate a far sì che tutti abbiano la vita. E l’abbiano in abbondanza! Sia per tutti una Pasqua di vita e di pace.

Santo Marcianò