Omelia al Cimitero Militare del Verano, 2 novembre 2014

02-11-2014
Carissimi fratelli e sorelle,

come ogni anno, la Chiesa ci raduna in questa Eucaristia per fare memoria dei nostri fratelli defunti, dei caduti di tutte le guerre, del mistero stesso della morte. Siamo nel centenario dall’inizio della prima Guerra Mondiale e il pensiero orante va a tutti coloro che hanno pagato con la vita il peso orribile e ingiusto di quella guerra e delle tante guerre che ancora insanguinano le mani degli uomini. Oggi è il giorno della memoria! E mentre tutti, in tutti i Cimiteri del mondo, fanno memoria in particolare dei loro cari, noi sentiamo non solo il dovere civile e morale di ricordare i caduti ma ne avvertiamo il bisogno affettivo, del cuore. Desideriamo piangerli e piangerli come «comunità»: la comunità della città terrena, delle autorità politiche e militari che qui sono presenti e che saluto e ringrazio di cuore; La comunità ecclesiale, la Chiesa Ordinariato Militare che, in particolare attraverso il ministero dei cappellani, è segno della vicinanza di Dio a coloro che, a servizio della città terrena, portano avanti compiti di difesa. Oggi, queste due comunità si trovano insieme e non solo fisicamente. Si sentono unite dalla chiamata a lottare in tutti i modi contro la guerra che, come il Papa ha gridato a Redipuglia, «è follia e non guarda in faccia a nessuno»[1]. Noi vogliamo insieme guardare in faccia i caduti di ieri e di oggi, anche quelli ignoti, vogliamo piangerli come figli e, se così si può dire, ascoltarli come maestri che ci insegnino la guerra dal loro punto di vista. «Oh se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro… per sempre si incidessero sulla roccia!», esclama nella prima Lettura (Gb 19,1.23-27a) Giobbe, uomo giusto, uomo di fede, uomo di pace il quale, all’improvviso, deve fare i conti con la morte che gli viene incontro in modo devastante, togliendogli gli affetti più cari e attaccandolo nella sua stessa carne. Giobbe sente il bisogno di narrare, di scrivere il suo dolore, di lasciarne segno perché sia patrimonio per altri. Così, accanto ai trattati storiografici, alle cronache giornalistiche, alle valutazioni politiche, esiste una guerra vista con gli occhi delle vittime e scritta dalle loro mani. Oggi questi caduti ci trasmettono il loro dolore, la paura, la tragedia del distacco dai loro cari e dalla vita, il loro sforzo di umanizzare gli orrori dei combattimenti contro i fratelli, come pure gli ideali che li hanno sorretti, nella speranza di costruire un mondo più giusto e fraterno, ad affrontare quella guerra che mai è giusta, che è «sempre fratricida»[2], che è devastazione e morte. E l’uomo – lo ha ricordato ieri proprio qui Papa Francesco – è «capace di devastare il creato, la vita, i valori»[3].   L’uomo, però, è anche capace di costruire ciò che ha distrutto, trasformando il male in bene, la guerra in pace. La pace è il messaggio ultimo che questa Eucaristia oggi lascia al nostro impegno e alla nostra speranza. La pace, in realtà, si respira anche in un Cimitero come questo, rendendolo luogo sacro, luogo di vita eterna. Segno che, come dice il Vangelo (Gv 6,37-40), Dio ci risusciterà nell’ultimo giorno. Questa è la speranza! Lo stesso Giobbe, arriva a pronunciare parole di una fede purissima e di una speranza quasi sconcertante. «Io so che il mio Redentore è vivo… Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio». «Il mio Redentore». «Mio»: sono parole d’amore! Il mistero della morte ci conduce a Cristo e al Suo amore salvifico. È Lui che, come dice Paolo nella seconda Lettura (Rm 5,5-11), attraverso la Sua morte ci «riconcilia» con una morte che non ha l’ultima parola. Sì, cari amici, abbiamo bisogno di «riconciliarci» per combattere realmente la guerra! Riconciliarci con i fratelli, i vicini, i familiari, i nemici: la morte è più dura quando recide rapporti conflittuali, litigi insoluti, odi induriti; quando l’amore non la può vincere. Riconciliarci con i poveri e gli ultimi, superando la cultura dell’indifferenza e dello scarto. E se, per la nostra Italia, la devastazione della guerra sembra solo ricordo sconcertante di ieri, «facendo memoria» comprendiamo che «la pace non è pace finché anche un solo popolo nel mondo sarà in guerra ma anche che la pace non può celare, dietro l’apparente assenza di guerra, quelle ingiustizie, discriminazioni, prevaricazioni e violenze di ogni genere delle quali, peraltro, tutti rischiamo di essere protagonisti o almeno complici»[4]. Infine, riconciliarci con Dio. È bello che la Chiesa, nel giorno dei defunti, conceda il dono dell’Indulgenza Plenaria, della cancellazione della pena, mostrando la «bontà del Signore» che abbiamo contemplato nel Salmo (Sal 26). E sarebbe bello che ciascuno di noi, in questi giorni, facesse sua l’esperienza della Riconciliazione nel Sacramento della Confessione.   Cari fratelli e sorelle, «colui che viene a me, io non lo caccerò fuori» assicura Gesù nel Vangelo: accostiamoci a Lui, speranza che non delude. La sosta di oggi, la preghiera, la memoria di oggi insegna che il rinnovato e urgente impegno, istituzionale e comunitario, per la pace nasce da cuori nuovi, capaci di aprirsi all’amore di Cristo, il «mio Redentore», che ci aspetta sempre, non caccia fuori nessuno, fino al momento della morte e nel momento della morte. E così sia!     X Santo Marcianò


[1] Francesco, Omelia al Sacrario Militare di Redipuglia, 13 settembre 2014
[2] Santo Marcianò Lettera Il Dio che stronca le guerre, 3 settembre 2014
[3] Francesco, Omelia al Cimitero del Verano, 1 novembre 2014
[4] Santo Marcianò, Lettera Il Dio che stronca le guerre, 3 settembre 2014