Furono migliaia i preti e vescovi delle diocesi vicine al fronte internati con l’accusa di essere pacifisti, disfattisti, nemici o “austriacanti”. A nulla servirono gli appelli della Santa Sede e di molti parlamentari.
A lungo rimosse, nonostante la presenza di diari, epistolari e documenti di archivio, le vicende degli internati della Grande Guerra solo di recente hanno conosciuto l’attenzione di alcuni studiosi, con ricostruzioni accurate soprattutto locali (Ellero, Milocco, Medeot, Ceccotti, Gambarotto, Cromaz).
Si tratta di storie che con diversi nomi – deportazione, internamento, domicilio coatto, confino – ma uguale sostanza, parlano di diritti calpestati.
Con un pretesto: difendersi da ogni fattore potenzialmente in grado di insidiare operazioni belliche e ordine pubblico. Qui però non parliamo delle vittime dei sospetti della monarchia asburgica, come i trentini di nazionalità austriaca finiti in lager tipo Katzenau, ma di quella italiana: cioè dei tanti friulani, veneti, tirolesi, con o senza il travaglio della nazionalità, dell’identità, della patria, e della pace, cacciati dalle loro terre occupate e deportati dalle autorità militari italiane in diverse province del Regno.
Un fenomeno che ha visto tanti laici e sacerdoti tenuti lontano dalle loro comunità sino alla fine del conflitto. Bollati come ‘austriacanti’, poi ‘pacifisti’, puniti da provvedimenti tanto rapidi quanto spesso sprovvisti di motivazioni. Bastava un barlume di sospetto, una dichiarazione pubblica di troppo, un pensiero per la pace espresso in libertà, e si era considerati pericolosi. L’intento delle autorità? Garantire la sicurezza militare e il fervore bellico, evitare il diffondersi di idee pacifiste, neutraliste, e, dopo Caporetto, disfattiste.
Migliaia dunque le condanne contro questi ‘dissidenti’, talora veri, più spesso presunti. Migliaia i destinatari di limitazioni delle libertà individuali, prima nelle zone di guerra, poi lungo l’Adriatico e in tutto il Nord. Persone umiliate, spedite nel Centro o nel Sud: a Firenze, Grosseto, Lucca, Pisa, Macerata, Ascoli, Avellino, Campobasso, Benevento, Salerno, ma anche in Sicilia, in Sardegna, a Ventotene o Lipari. Per alcuni l’internamento durò dal 1915 sino al 1919, per altri alcuni mesi, altri ancora dopo un primo ritorno a casa furono di nuovo internati. A nulla valevano le proteste e, trattandosi di misure militari, come ricordano gli studi sulla legislazione di guerra di Giovanna Procacci, nessun diritto alla difesa.
Bersagli privilegiati, in questo contesto, sacerdoti anonimi contrari alla guerra nel nome del vangelo; militanti cattolici non necessariamente della tempra di un Guido Miglioli, che motivava il suo neutralismo con la fede; vescovi sensibili pronti ad amplificare nelle loro pastorali la voce di Benedetto XV, preti ritenuti inaffidabili per i precedenti di lealtà all’Austria. In un documento del Comando Supremo del 10 febbraio 1916 si legge: «…Preti: si sono internati quasi tutti i sacerdoti e si è fatto benissimo perché nemici e austriacanti».
Insomma c’è quanto basta per un capitolo di storia della Chiesa in guerra da approfondire, tra sospetti fondati e infondati che colpirono a più riprese presuli, parroci, sacrestani, militanti cattolici, delle zone occupate e non solo, accusati prima di austriacantismo, poi di pacifismo, o di disfattismo, internati anche solo per aver detto, come il parroco di Grancona, in provincia di Vicenza: «La guerra sarà lunga».
Reazioni esagerate contro le quali non servirono nemmeno altissimi interventi vaticani. E basterà ricordare l’inutilità delle pressioni dello stesso Segretario di Stato Gasparri a favore di sacerdoti anziani internati, o quelle dello stesso ministro della Giustizia e dei Culti Orlando per una maggior cautela negli internamenti del clero.
Un capitolo di storia simile a un mosaico dove già qualche tassello è finito al suo posto. Ricordiamo qui don Giovanni Meizlik che pur avendo accolto come ‘fratelli’ gli occupanti italiani già il 27 giugno 1915 fu internato a Firenze dopo una detenzione nel carcere di Cervignano, o don Francesco Spessot suo coadiutore internato pochi mesi dopo. Ricordiamo Luigi Clignon, cappellano di Erbezzo, internato nel giugno 1915 e nel marzo 1916, e con lui i sacerdoti Giuseppe Saligoi, Giacomo Lovo, Giobatta Cruder, cappellani rispettivamente di Mersino, Azzida, Rodda, per i quali si interessò attivamente il vescovo Luigi Pellizzo. Ricordiamo don Pietro Cernotta, cappellano di Liessa accusato di avere ospitato nella canonica pochi mesi prima della guerra un prete pacifista di Lubiana. Di un gran numero di sacerdoti friulani internati sappiamo grazie a Camillo Medeot.
Se è vero che già il 21 maggio 1915 l’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej, sloveno, prevedendo il conflitto aveva chiesto ai suoi parroci di non abbandonare le loro comunità, è pur vero che sessanta degli ottanta preti isontini giá nei primi giorni di guerra furono mandati al confino, accusati di spionaggio a favore degli austriaci (attraverso segnalazioni dai campanili o misteriosi telefoni nascosti nei tabernacoli o nei confessionali), nonché di ospitalità ai soldati nemici (nelle canoniche e nelle sagrestie). Stessa sorte, cioè l’internamento, per decine di preti giuliani, oppure trentini.
Ricordiamo ancora, accusati di atteggiamento «pacifista e disfattista», il parroco di Cendon Callisto Brunetta e il viceparroco di S.Elena Carlo Noé nel trevigiano, il primo esiliato a Benevento e poi, pare, addirittura a Bengasi, il secondo a Parenti e Saliano, in Calabria. «Da qualche tempo vivo in continue apprensioni di vedermi internati a uno ad uno i migliori sacerdoti della Diocesi», così il vescovo Longhin il 20 gennaio 1918, che insieme ai due sacerdoti sopra ricordati aggiungeva monsignor Luigi Bortolanza, arciprete di Castelfranco, don Luigi Panizzolo, arciprete a Volpago e don Attilio Andreatti arciprete a Paese (Archivio Bertolini, Montebelluna).
L’ elenco potrebbe continuare, dando conto anche di sacerdoti che si trovarono, come Pietro Dell’Oste a Udine, a far da collegamento fra il Comando Supremo e internati per alleviare tanta sofferenza, o di deputati e senatori cattolici che provarono, senza esito, a intercedere presso le autorità. Anche a guerra finita richieste di riabilitazione e di indennizzo di molti internati rimasero senza risposta. Accadde anche ai sacerdoti isontini confinati che reclamavano «soddisfazione morale e una riparazione d’indole materiale».
A nulla servirono anche le interpellanze parlamentari a riguardo: fu risposto che gli internamenti erano avvenuti in forza della potestà discrezionale del Comando Supremo e che i provvedimenti presi in forza del Codice penale militare non davano diritto a revisioni. Molti ex internati continuarono a rivolgere petizioni. Inutilmente. Poi con il tempo tutto cadde nell’ oblio. Che sia arrivato il momento per tornare sul tema?
Marco Roncalli
(da Avvenire 14.8.14)