Omelia dell’Ordinario Militare alla Santa Messa Crismale celebrata ieri in S. Caterina

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«Noi paghiamo cara, molto cara la dignità sublime della nostra vocazione. Il ridicolo è sempre così vicino al sublime! E il mondo, di solito così indulgente verso tutte le forme del ridicolo, odia la nostra, d’istinto. […]. L’allontanamento di tanta povera gente dal prete, la sua antipatia profonda, forse non si spiega soltanto, come ci si vorrebbe far credere, con la rivolta più o meno inconscia degli appetiti contro la Legge e contro coloro che la incarnano… A che serve negarlo? Per provare un sentimento di repulsione davanti alla bruttezza, non è necessario avere una idea chiarissima del Bello. Il prete mediocre è làido»[1].

  Carissimi fratelli e sorelle, cari confratelli, questa lunga citazione, tratta dal Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, ci introduce oggi alla Celebrazione della Messa Crismale. Accolgo con gioia ciascuno di voi nella nostra Chiesa Principale, ringraziandovi di cuore per la presenza, non sempre facile da organizzare, con un pensiero colmo di affetto per i cappellani militari in pensione e per coloro che non sono qui perché malati, all’estero o in navigazione, per altri impedimenti. La Messa Crismale è un appuntamento significativo per la Chiesa universale e per ogni diocesi; un momento di grazia e comunione, in cui diventa, per così dire, “sacramentalmente celebrata”, quella comunione che, sempre, ci fa “uno”, ci unisce nella sacramentalità del sacerdozio e dell’Eucaristia. Una sola Chiesa, un solo Corpo, un unico presbiterio; comunione ecclesiale, comunione tra preti e vescovo, comunione presbiterale… Una comunione molteplice, respiro di quella comunione che ciascuno di noi presbiteri vive con la Chiesa-Sposa, con la porzione di Chiesa affidata al suo ministero. Il mistero della comunione si ripropone nel Giubileo della Misericordia, mentre celebriamo assieme il Giubileo Sacerdotale. La comunione, così, si fa gioia, giubilo; allo stesso tempo, la comunione ci innesta in quel cammino di conversione che ogni Giubileo ripropone, in particolare l’Anno Santo della Misericordia. Non ci possiamo salvare da soli: la salvezza, la conversione, la stessa gioia, sono responsabilità di tutta la fraternità presbiterale.   Mediocrità o misericordia? Il brano di Bernanos ci mette in guardia da un rischio che contrasta decisamente con la gioia; addirittura, egli lo definisce qualcosa di “làido”, di sporco, di brutto, di immorale, di indegno per un sacerdote: la mediocrità. L’espressione, già di per sé forte, risuona più intensa e provocante in questo giorno e in questa Liturgia. Siamo al centro della Settimana Santa; nel Vangelo (Lc 4, 16-21), Gesù è al centro della scena, gli occhi di tutti sono puntati su di Lui. Gesù è al centro; ancor più, al centro c’è il mistero del Sacerdozio di Cristo. Ed è dentro il Suo Sacerdozio che noi celebriamo il nostro, riportando al cuore le promesse del giorno della ordinazione. Consacrati con l’unzione, con l’olio che significa missione, consolazione, comunione. E del crisma, oggi, rivive non solo la memoria ma il «profumo». Sì, il profumo crismale, il profumo sacerdotale! Un profumo in grado di vincere la mediocrità, di elevarci al “Bello”. In questo Giubileo siamo invitati a reinterpretare questo profumo, segreto della misericordia sacerdotale verso la quale il Sacerdozio di Gesù, a partire dalla scena evangelica, decisamente ci orienta.   Misericordia sperimentata La predicazione nella sinagoga è la prima “uscita pubblica” di Gesù, il quale ritorna a Nazareth dopo aver vissuto, nel deserto, la tentazione. Prima di predicare la misericordia, anche il Figlio di Dio, potremmo dire, l’ha sperimentata, ha misurato il Suo stesso Sacerdozio con il metro delle tentazioni tipiche dell’uomo che si mette a servizio di Dio. Anche nel nostro sacerdozio, la misericordia sgorga dalla fragilità, dalla lotta, dalla tentazione. Nasce dalla povertà assunta, condivisa e consegnata con fiducia, nel Sacramento del Perdono celebrato e amministrato. Ci sono, anzitutto, le povertà e fragilità umane, personali, che condividiamo con ogni creatura toccata dal peccato ma plasmata a misura dell’amore che vince il peccato. Nel deserto, come per Gesù, il valore “carismatico” –  cioè ricco di charis, di grazia – della Divina Misericordia è un’arma risplendente contro le insidie del nemico. La misericordia è l’antidoto alla triplice tentazione da cui il Figlio di Dio vuole dimostrarci che non siamo esenti: fondare le proprie sicurezze non sulla Provvidenza ma su ciò che si possiede; vivere il ministero come spazio di potere e non come umiltà di servizio obbediente; rincorrere quel successo che ci mette dalla parte dei forti, dei vincenti, e sbarra la via della compassione. Non sarebbe forse «mediocre» un sacerdozio che cedesse a tali tentazioni? Ma la grazia della misericordia ci viene in aiuto, con la dolcezza e la prossimità dell’amore di Gesù Cristo il quale, nel deserto, ha vissuto e superato tali insidie anche a nome del nostro stesso sacerdozio. Assieme alle fragilità personali, tuttavia, sperimentiamo anche povertà e fragilità della Chiesa, della nostra Chiesa del’Ordinariato Militare, che vive tempi di incertezza e preoccupazione a motivo della Riforma in corso. Forse sarebbe una tentazione, per così dire, volerne uscire vittoriosi secondo i criteri dell’avere, del potere, del successo… Certo, è nostro dovere e responsabilità impegnarsi a difendere la verità dalle menzogne a volte squallide, impregnate di anticlericalismo e ideologismo. Ma anche per noi Chiesa, vale quell’affidarsi alla volontà e all’agire di Dio che Cristo ha vissuto e indicato nel deserto. Così, diventiamo sempre più capaci di accogliere la misericordia come sfida per il modo di vivere il ministero e, in esso, la nostra relazione con la Chiesa: sì, anche questa relazione, che è relazione sponsale, va sottratta alla mediocrità.   Misericordia annunciata La scena evangelica mostra Gesù nell’atto di annunciare: una predicazione che mostra la Sua identità. «Luca lega l’opera di Gesù alla sua persona, ma questa volta lo fa in modo da permettere al carattere scandaloso del suo messaggio di venire a galla in questa identificazione concretizzante»[2], scrive Walter Kasper. Vivere per annunciare il Vangelo, annunciare il Vangelo vivendo; “se necessario anche a parole”, come spesso ricorda Papa citando San Francesco: è quello «scandalo» insito nel messaggio di Gesù che, se portato con la propria esistenza trasformata dalla misericordia, sovrasta la mediocrità del presbitero e vivifica la comunità ecclesiale. In queste settimane, ho attraversato l’Italia per celebrare i cosiddetti “Precetti” nelle diverse Zone Pastorali. Ho gioito, vedendo una Chiesa viva in comunità palpitanti di fede e opere. E se questa, con tutti i limiti possibili, è la realtà, lo si deve soprattutto ai presbiteri, a voi cappellani militari chiamati, ancor più in una diocesi così “atipica”, a essere principio di unità della Chiesa e a nome della Chiesa. D’altra parte, solo l’unità sgorgata da un profondo sentimento di appartenenza diventa feconda di pastorale e dimostra il ruolo della nostra diocesi anche all’interno della stessa Chiesa italiana, evidenziandone l’identità bella e «creativa» Ma la «creatività» è un’opera «dello Spirito», «della preghiera». «Un Vescovo che non prega, un prete che non prega – ha ricordato il Papa ai presbiteri di Caserta – ha chiuso la porta, ha chiuso la strada della creatività. […]. La creatività che viene dalla preghiera ha una dimensione antropologica di trascendenza, perché mediante la preghiera tu ti apri alla trascendenza, a Dio. Ma c’è anche l’altra trascendenza: aprirsi agli altri, al prossimo. Non bisogna essere una Chiesa chiusa in sé, che si guarda l’ombelico, una Chiesa autoreferenziale, che guarda se stessa e non è capace di trascendere. È importante la trascendenza duplice: verso Dio e verso il prossimo»[3]. Sì, cari fratelli. Senza preghiera non c’è creatività e senza creatività non c’è trascendenza, ma chiusura e mediocrità.   Misericordia compiuta E la trascendenza, se ci pensiamo bene, da «compimento» alla misericordia, innestandola nel mistero di comunione. Nella comunione c’è il «compimento» delle parole di Isaia (Is 61,1-3.6.8-9) che Gesù ha riproposto a Nazareth. Parole che, da quando il Figlio di Dio si è incarnato, hanno carattere di universalità: ci esortano a stare vicini ai poveri, a individuare le povertà dei militari e delle loro famiglie nei diversi luoghi e contesti in cui operiamo, ad «annunciare la liberazione a quanti sono prigionieri delle nuove schiavitù della società moderna, restituire la vista a chi non riesce più a vedere perché curvo su sé stesso, e restituire dignità a quanti ne sono stati privati»[4]. Le opere di misericordia risplendono nelle iniziative pastorali della nostra Chiesa: poche, forse, in confronto ad altre diocesi, ma che sempre sgorgano dalla trasparenza di una amore totale, sponsale, a Cristo e, in Lui, diventano trasparenza di un’oblazione vissuta a servizio dei fratelli. Se è vero che tutti sono chiamati a compiere opere di misericordia, è vero che nel prete esse sono scia di un «profumo» d’amore che salva dalla mediocrità, offrendoci un nuovo “sguardo sacerdotale”. Cito ancora Bernanos: «So che la mia parrocchia esiste realmente, che siamo l’un dell’altra per l’eternità, che è una cellula vivente della Chiesa imperitura e non una finzione amministrativa. Ma vorrei che il buon Dio mi aprisse gli occhi e le orecchie, mi permettesse di vedere il suo viso, di sentire la sua voce! È un domandare troppo, forse? Il viso della mia parrocchia! Il suo sguardo! Dev’essere uno sguardo dolce, triste, paziente: immagino che somigli un poco al mio quando cesso di dibattermi, quando mi lascio trascinare da questo grande fiume invisibile che ci porta tutti, alla rinfusa, vivi e morti, verso la profonda Eternità… Lo sguardo che Dio ha visto dall’alto della Croce».[5]   Carissimi confratelli, è l’invito alla contemplatività, al silenzio; un invito che ci parla ogni giorno e che, come presbiterio, raccoglieremo anche negli Esercizi Spirituali che vivremo in Terra Santa. Il sacerdote, afferma Papa Francesco, deve avere «una capacità di contemplazione sia verso Dio sia verso gli uomini. È un uomo che guarda, che riempie i suoi occhi e il suo cuore di questa contemplazione: con il Vangelo davanti a Dio, e con i problemi umani davanti agli uomini. In questo senso deve essere un contemplativo». Questa contemplatività sgorga dalla preghiera e, in modo particolare, da quella «spiritualità del clero diocesano» che – conclude il Papa ed è molto importante! – significa «avere la capacità di aprirsi alla diocesanità», consapevoli che «non c’è spiritualità del prete diocesano senza questi due rapporti: con il Vescovo e con il presbiterio»[6]. È il Mistero che celebriamo oggi, nella Messa Crismale, andando alle sorgenti della gioia del Giubileo: una gioia che ci aiuti non solo a sperimentare, annunciare, compiere la misericordia ma a “usarci” misericordia, a “essere misericordia” insieme, come presbiterio. Lo chiediamo al Signore per ciascuno di noi, lo chiediamo l’uno per l’altro, perché sia il dono di questa Pasqua, di questo Giubileo: uno sguardo che profuma del crisma della misericordia sacerdotale e libera dal pericolo della mediocrità, elevandoci alla Bellezza senza fine. Grazie, Signore, per il dono del nostro Sacerdozio; grazie, Signore, per il dono del nostro presbiterio; grazie, Signore, per il dono della nostra Chiesa diocesana che ti chiediamo diventi sempre più misericordia: riflesso del Tuo Figlio Gesù. Amen.   X Santo Marcianò


[1] Cfr. Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna
[2] Walter Kasper, Misericodia, Queriniana, Brescia 2013, p. 102
[3] Francesco, Incontro con i sacerdoti della diocesi, Caserta, 26 luglio 2014
[4] Francesco, Misericordiae Vultus, n. 16
[5] Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna
[6] Francesco, Incontro con i sacerdoti della diocesi, Caserta, 26 luglio 2014