Relazione dell’Ordinario al Convegno, presso l’Augustinianum, nel XXX di promulgazione della Spirituali Militum Curae

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(29-04-2016) Eminenze Reverendissime, carissimi confratelli nell’episcopato, cari cappellani militari e sacerdoti, carissimi militari.
 Il nostro ritrovarsi qui, oggi, è un’occasione preziosa e il mio grato e affettuoso saluto si unisce a quello di ciascuno di voi, con uno speciale benvenuto qui in Italia.
Celebriamo il Giubileo dei Militari e delle Forze di Polizia. È il nostro Giubileo, il Giubileo di una Chiesa che, nel mondo militare, è presenza operosa, feconda, necessaria. Una Chiesa intenta a portare Cristo e, con Lui, a entrare in dialogo con la storia, con le sue contraddizioni e conflitti, come pure con la speranza in essa racchiusa. E, in questo contesto, mi piace ribadire che gli Ordinariati Militari sono presenza di Chiesa insostituibile e preziosa e, come ovunque, chiamata continuamente a riformulare il proprio linguaggio e i propri gesti per renderli eloquenti e incisivi; per renderli, semplicemente, presenza misericordiosa di Cristo in ogni fase storica e latitudine geografica.
Ci troviamo in Europa; e dire “Europa”, soprattutto in questi ultimi tempi, significa indicare una realtà piuttosto complessa, variegata dal punto di vista socio-politico, amministrativo, economico, culturale; come pure per le situazioni di pace o conflitto che si trovano in differenti zone. Dire Europa è dire Italia come Francia, Austria come Grecia, Ucraina come Gran Bretagna, Germania come Polonia…
In tali Nazioni, sono certamente diverse le sfide, talora cocenti, poste al mondo militare; allo stesso tempo, sono differenti le risposte che il mondo militare offre, in relazione al contesto politico e al patrimonio culturale; inoltre, come sappiamo, diversi sono gli aspetti normativi che definiscono tanto l’organizzazione dei militari e della polizia in sé quanto lo spazio affidato alla Chiesa.
Non è certo possibile esaminare nel dettaglio tali differenze; tuttavia, come Chiesa che è in “questa” Europa, ci facciamo la domanda su quale sia il nostro ruolo a sostegno delle Forze Armate e Forze dell’Ordine. Una domanda profonda e concreta, indispensabile affinché la celebrazione del Giubileo sia realmente esperienza di conversione, di misericordia, di gioia.
Lo facciamo, provvidenzialmente, partendo dalla riflessione sulla Spirituali Militum Curae, un Documento normativo ma caratterizzato da una forte ansia pastorale che trova la sua sintesi in questa affermazione: “La cura dei militari e delle loro famiglie sta a cuore alla Chiesa!” E questo noi vogliamo ribadirlo e dimostrarlo. E ci facciamo tale domanda – è molto bello – “con” e “per” i nostri militari, perché in essi sia spinto e facilitato quel servizio alla sicurezza e alla libertà, alla giustizia e alla pace, del quale il Concilio li ha definiti «ministri»[1].
 
Ministri! L’espressione, pregnante e splendida, basterebbe da sola a dare uno straordinario valore al servizio, alla vocazione di coloro che, in senso generale, svolgono un compito militare. E dire ministri significa riconoscere che a essi è affidato, non solo dalla comunità civile ma da Dio stesso, il bene prezioso della giustizia e della libertà, della sicurezza e della pace. Un bene messo in pericolo dai conflitti armati e da ogni forma di violenza, odio razziale, persecuzione religiosa, intolleranza e discriminazione, esclusione e chiusura.
Se si fa propria questa semplice suggestione del Concilio, cambia in modo straordinario il modo di percepire il ruolo dei militari: da uomini di guerra a operatori di pace; da servi del potere a servi del popolo per difenderne e custodirne la libertà, la dignità, la vita umana.
Tale cambiamento, pur non essendo ovunque uniforme, si è verificato nel tempo, favorito anche dall’opera pastorale che la Chiesa svolge e che i militari stessi – almeno in Italia – desiderano, richiedono e considerano di grande aiuto. Un’opera che potremmo riassumere in tre punti: sostegno, educazione, evangelizzazione.
 
Anzitutto sostenere, con la forza della preghiera, dei sacramenti, della vita comune, quel lavoro spesso nascosto e misconosciuto che i nostri militari portano avanti, anche a rischio della propria vita. Credo abbia colpito profondamente tutti noi la recente visita del Papa a Lesbo: «L’Europa deve riprendere la capacità di integrare», egli ha affermato nella Conferenza Stampa sul volo di ritorno in Italia. «Io capisco un certo timore, ma chiudere le frontiere non risolve niente, perché quella chiusura alla lunga fa male al proprio popolo e l’Europa deve urgentemente fare politiche di accoglienza, integrazione, crescita, lavoro e riforma dell’economia. Tutte queste cose sono i “ponti” che ci porteranno a non fare muri»[2].
Il monito che Papa Francesco ha lanciato, al nostro Continente e al mondo intero, in realtà, non si limita al problema dei migranti: e forse è proprio tale emergenza umanitaria che presenta l’allarme di un’Europa che rischia di dimenticare la propria identità. Ed è interessante notare che le vie che il Santo Padre indica per la costruzione di “ponti” – questo è per noi incoraggiante -, sono spesso proprio le vie percorse dai nostri militari e forze di polizia, chiamati a farsi soggetti di soccorso per i deboli e, al contempo, a difendere la comprensibile paura della gente.
 
Ma affinché i militari svolgano pienamente tale compito, occorre «educare», in modo particolare le coscienze. Il mondo militare è molto attento alla formazione e a una formazione non solo tecnica ma integrale dell’uomo. Le leggi pedagogiche insegnano che la formazione ha bisogno di un tessuto di valori di riferimento come pure di testimoni in grado di viverli, rendendoli al contempo attrattivi.
Figure come il questore Giovanni Palatucci, di cui si parla in questo nostro Convegno, o il carabiniere Salvo d’Acquisto, dicono, con la loro vita offerta, la misura di dedizione e donazione a cui può giungere l’autentico spirito di servizio, quando persevera nel bene, rifiutando di piegarsi alla logica della violenza, dell’odio e del male.
Mi colpisce quanto il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, ha affermato qualche giorno fa, celebrando l’Anniversario della Liberazione dell’Italia dal fascismo: «È sempre tempo di Resistenza. È tempo di Resistenza perché guerre e violenze crudeli si manifestano ai confini d’Europa, in Mediterraneo, in Medio Oriente. E, ovunque sia tempo di martirio, di tirannia, di tragedie umanitarie che accompagnano i conflitti, lì vanno affermati i valori della Resistenza. Non esiste una condizione di “non guerra”. O si promuove la pace e la collaborazione o si prepara lo scontro futuro. Per questo è stata lungimirante la scelta di quegli statisti che, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, ricostruirono l’Europa nell’integrazione politica ed economica»[3].
Sì, c’è guerra nei Paesi con conflitti in atto, in quelli da cui devono fuggire profughi e migranti, nei luoghi in cui è diffusa la corruzione politica, la criminalità organizzata, il narcotraffico, la tratta di esseri umani, lo sfruttamento e la violenza su donne e bambini… Questa guerra occorre far cessare, ricostruendo l’Europa sul fondamento della pace.
 
La Chiesa, però, sa bene che tale pace non si costruisce solo con l’opera delle grandi potenze e strategie militari, ma è anzitutto un dono, che parte da gesti concreti e quotidiani e si compie con l’aiuto di Dio.
Ecco, dunque, lo spazio dell’evangelizzazione, radicata nel comandamento dell’amore, nel messaggio della misericordia che, con il Giubileo, il Santo Padre ha voluto ribadire e che egli stesso mostra anche ai nostri militari e forze dell’ordine, incoraggiando con il suo esempio il loro impegno a servizio all’uomo, soprattutto dei più poveri, indifesi, innocenti, scartati, discriminati.
La misericordia, tuttavia, si snoda anche in alcuni percorsi specifici che, come ho avuto già modo di affermare, potrebbero essere portati avanti come Chiese degli Ordinariati militari d’Europa, in collaborazione con diverse realtà istituzionali e con le Chiese diocesane. Penso alla possibilità di “evangelizzare l’accoglienza”, sulla scia di quanto precedentemente affermato circa il soccorso ai migranti e ai profughi, come pure alla possibilità unica che noi pastori abbiamo, operando accanto a cappellani di religioni diverse, di valorizzare il dialogo ecumenico e interreligioso quale risorsa capace di contrastare la cultura della guerra. Infine, ma elemento di primaria importanza, credo sia necessario accrescere tra le nostre Chiese la collaborazione e l’unità in una formazione di grande spessore antropologico e in una preghiera costante e fiduciosa. È come se la Chiesa che è nel mondo militare potesse provare a “ridisegnare i confini” dell’Europa sulla propria identità, su quelle radici cristiane che, grazie anche all’impegno di preghiera, potranno dare frutti di fraternità, accoglienza, misericordia, arrivando alla pace, dono che non bisogna mai smettere di cercare, costruire, invocare.
Per realizzare tutto questo, serve forse anche un’ultima parola: la memoria. Quella memoria su cui l’Europa ha voluto edificare se stessa, per non dimenticare ciò che la guerra aveva seminato. Quella memoria che i nostri militari sono chiamati a custodire, coltivare, trasmettere, anche con le loro tradizioni. Quella memoria che non vogliamo rimanga come segno buio e indelebile per le nuove generazioni, come per quei bambini di Lesbo nei cui disegni Papa Francesco ha saputo leggere il pericolo e accogliere il monito che ci ha trasmesso: «Qui si vede un bambino che annega: questo hanno nel cuore. Hanno in memoria questo e ci vorrà del tempo per dimenticare. Uno ha disegnato il sole che piange. E se anche il sole è capace di piangere anche a noi una lacrima ci farà bene»[4].
Grazie di cuore!
 
 X Santo Marcianò

[1] Conclio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 79
[2] Francesco, Conferenza Stampa sul volo di ritorno da Lesbo, 15 aprile 2016
[3] Sergio Mattarella, Intervento alla cerimonia per il 71° anniversario della Liberazione, Varallo, 25/04/2016
[4] Francesco, Conferenza Stampa sul volo di ritorno da Lesbo, 15 aprile 2016