Omelia dell’Ordinario nel Giubileo delle Capitanerie di Porto

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(Vaticano, 20/07/2016) Carissimi fratelli e sorelle, con grande gioia, ci ritroviamo assieme in questa Basilica, fortemente significativa per la cristianità, a celebrare una ricorrenza di grande significato: la chiusura del 150° di fondazione delle Capitanerie di Porto.

È bello che questo anniversario si chiuda con l’Eucaristia sulla Tomba di Pietro, luogo che custodisce le radici della vita cristiana: il servizio, la testimonianza che arriva fino al martirio; ed è bello che oggi si celebri anche il vostro Giubileo. Il Giubileo è un tempo di gioia, di conversione, di ringraziamento; è un Anno Santo, in cui si riconosce come tutti i doni della terra e della vita vengano da Dio e come l’uomo sia chiamato a rispondere ai doni del Signore – questo Giubileo straordinario ce lo ricorda in modo speciale – con la misura della misericordia. Sì, il Signore è l’origine di tutti i doni che hanno arricchito il vostro cammino, il Signore ha scritto la vostra storia. La storia di un servizio, quello delle Capitanerie di Porto, che da 150 anni testimonia protezione, difesa dei cittadini ma anche vicinanza, soccorso, cooperazione, condivisione… testimonia diversi volti della misericordia che, se vissuta pienamente, conduce sempre al dono della vita. Oggi siamo qui per dire grazie del dono di voi stessi che fate all’Italia e al mondo; per ricordare i vostri caduti, segno più commovente di tale dono; per pregare, affinché possiate ritrovare la forza di portare avanti un compito difficile, talora eroico, sempre ricco di quella misericordia che è cuore del servizio di testimonianza cui il cristiano è chiamato: il servizio al Vangelo, alla Parola di Dio. Il Vangelo (Mt 13,1-9) oggi narra proprio la storia della Parola di Dio, raffigurata come un seme gettato in terra dal seminatore; che esso germogli o meno dipende da una variabile: dipende dal terreno. Esistono terreni non adatti; esistono terreni che sembrano adatti ma, dopo tempo o al sopravvenire delle difficoltà, si rivelano non buoni: c’è l’asfalto, i sassi, i rovi… Tuttavia, non lo dimentichiamo, c’è anche il terreno buono, nel quale il seme attecchisce, produce tanti frutti e, di conseguenza, altri semi.   Il seme, spiega Gesù, è la Parola. Il seme, potremmo dire, è quel Progetto creativo di bene, pace, giustizia, fraternità, amore che governa il mondo e che il mondo attende ma non sempre accoglie. E Dio, pazientemente, continua a gettare il seme in ogni terra, nella nostra terra. Ma quale terra, concretamente, riceve oggi il seme? Guardandoci attorno, soprattutto in questi ultimi giorni, i frutti che sembrano germogliare sono frutti di odio, violenza, terrore; frutti di ingiustizia e discriminazione sociale, di confusione politica e fondamentalismo religioso; frutti che hanno un unico, terribile comun denominatore: la morte. La morte che si abbatte improvvisa su innocenti, bambini, famiglie; su giovani e adulti che si recano al lavoro quotidiano, su amici che trascorrono una semplice serata di svago, su cittadini che abitano la loro Patria diventata ostile… È il panorama in cui anche il vostro servizio si inquadra. Eppure su questo terreno, reso impenetrabile dalle barriere della disumanità, Dio continua a seminare, con infinita pazienza e misericordia; semina la Sua Parola, che contiene tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno: Parola di vita, non di morte; di pace, non di guerra; di perdono, non di vendetta; di giustizia, non di inequità; di accoglienza, non di scarto. Parola che non è solo qualcosa che Dio “dice” ma che Egli “fa”: Parola Creatrice, che è Vita e dona vita.   La prima Lettura (Ger 1,1.4-10) parla di un altro seme: il seme della vita. È il germoglio dell’esistenza, dono fondamentale che il Creatore elargisce a ogni persona umana, pensando per lei, «prima di formarla nel grembo materno», un progetto di amore, unico e irripetibile. Non era forse anche questo, potremmo chiederci sgomenti, il progetto di bene e di vita per i bambini falciati a Nizza, per le vittime della sciagura ferroviaria di Andria, per i tanti migranti che trovano la morte prima di giungere alle nostre coste, talora anche tra le vostre braccia? Le cifre di tutte queste sciagure sono spaventose; ma la perdita della vita umana rimane spaventosa anche per cifre più basse, anche per una sola persona; perché ogni essere umano ha una vocazione, una specifica chiamata, così come ogni seme è promessa di un frutto che sarà diverso dagli altri, così come ogni Parola di Dio ha la sua unicità. Come lottare, dunque, per queste vite? Come fare giustizia per le vite perdute, come proteggere le vite minacciate? In questa risposta è il senso della vostra missione che la Parola di Dio, a conclusione di questo anniversario, vi fa provvidenzialmente rileggere come “missione profetica”. Nella figura del profeta, infatti, vita e parola sono unite: il profeta, potremmo dire, dona vita alla parola. In genere, noi trattiamo le parole come qualcosa di piccolo; parliamo senza misurarle, crediamo di possederle, le usiamo per esprimere i sentimenti; a volte, le rendiamo strumenti di morte, perché più taglienti di una spada… Il profeta, invece, tratta le parole come se fossero più grandi di lui: egli sa che non sono suo prodotto e intravede in esse un mistero vivente. Il profeta sa che la Parola gli è stata consegnata, affidata, e che egli ne è strumento, talora inconsapevole ma sempre fedele. Il profeta, in definitiva, si sente piccolo dinanzi alla parola: «Io non so parlare perché sono giovane», obietta Geremia a Dio che chiama. Eppure, anche nella sua piccolezza, il profeta non si tira indietro, perché sa che la Parola è necessaria per un servizio alla vita, per seminare vita e non morte. Ed è da questo servizio alla vita che deriva tutta l’autorità del profeta: «Io ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni», promette il Signore. E, sebbene non si tratti di un’autorità concepita e misurata secondo i criteri umani, pure è un’autorità reale che permette, continua il testo biblico, di «sradicare e demolire, distruggere e abbattere» ma, alla fine, di «edificare e piantare». Sì, nella Storia della Salvezza, soprattutto nei momenti di terrore, guerre, violenze, dispersione e disperazione, Dio non suscita solo grandi re o condottieri che possano vincere le battaglie e difendere dal nemico; Dio suscita i profeti, coloro che lavorano controcorrente e non si stancano di seminare la Sua Parola pure nel terreno ostile. È la vostra missione questa, destinata, ieri come oggi, a contrastare conflitti, violenze, ingiustizie, devastazioni, stragi… Una missione profetica, cioè capace di seminare vita laddove altri portino morte. Siete profeticamente a «distruggere» la mentalità razzista che genera odio, la cultura individualista che deturpa l’ambiente e lo splendore dei mari, le decisioni ingiuste, talora prese anche in sedi politiche nazionali o internazionali, che portano al rifiuto e all’esclusione di profughi, poveri, ultimi. È anzitutto un ministero di denuncia il vostro, portato avanti non solo a parole ma con gesti eloquenti, con concrete opere di misericordia. Per questo, siete chiamati anche a «edificare», a un reale ministero di ricostruzione: pensiamo a compiti quali il soccorso di vite umane in mare, la salvaguardia del creato, la cooperazione in missioni di pace… Difendere, per voi, significa proteggere; significa riconoscere in ogni persona e in ogni luogo della terra il progetto originario di pace e di bene pensato da Dio e mettere ogni energia a servizio di questo bene, facendo vostra la preghiera di paura e di supplica che risuona dalle parole del Salmo (Sal 70): «In te, Signore, mi sono rifugiato… per la tua giustizia liberami e difendimi… liberami dalle mani del malvagio». Cari amici, a questo grido di aiuto, che si leva dalla terra e dall’umanità nei momenti di pericolo, non si può rimanere insensibili. A questo grido bisogna dare risposte di competenza e professionalità, umanità e disponibilità, misericordia e accoglienza: risposte di vita, non di morte! È la profezia che, da 150 anni, attraversa la vostra storia e che il Signore suscita, attraverso di voi, in questo tempo difficile della storia umana. È il seme di vita che, in un mondo che troppo spesso conosce solo l’indifferenza della morte, voi continuate a gettare, fino al dono di voi stessi. È l’autorità nell’amore, che Dio vi riconosce e che suscita in noi, oggi, l’unica parola possibile: «Grazie»! 

Santo MARCIANO’
Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia