Indizione del Sinodo

Per l’Indizione del Sinodo

I cappellani militari, insieme al loro Vescovo, sono da quattro giorni riuniti in preghiera qui ad Assisi, per chiedere a Dio la Grazia di una novità di vita, indispensabile per meglio servire il mondo militare.
Qui, sul glorioso sepolcro di san Francesco, con noi è simbolicamente presente tutta la nostra Chiesa: dal signor Presidente della Repubblica, Capo supremo delle Forze Armate, fino ai giovani militari di leva che rimarranno in questa nostra Chiesa solo per pochi mesi.
Il Signore Gesù ha descritto la vita dell’uomo come una lotta e ci ha comandato: “Andate in tutto il mondo, …e annunciate il mio Vangelo”. Per realizzare questa missione la Chiesa militare vuol prendere coscienza della propria identità e della grande responsabilità derivante dalla sua presenza nel mondo militare. Una presenza piena di interrogativi e, a volte, fonte di contraddizioni e di interiori conflitti dovuti al fatto che non si può essere né militari a metà, né cristiani a metà: si deve fedeltà alla legge di Dio e alla legge degli uomini; si deve coniugare il primato della carità con la coerenza col proprio dovere; vi deve essere un’interiore disposizione al perdono unita alla necessità di applicare la giustizia.
La nostra presenza in questa realtà trova senso perché la vita militare costituisce un vero servizio all’uomo: difesa della Patria, salvaguardia della pacifica convivenza dei cittadini, tutela dell’ordine pubblico, fedele collaborazione con gli Organi dello Stato, educazione dei giovani al senso del dovere e alla disciplina della vita. A questi, che sono i compiti fondamentali di ogni Istituzione militare, si aggiungono oggi quelli non meno impegnativi della protezione civile e della tutela della pace internazionale.
Questo servizio all’uomo può raggiungere i vertici più alti della vita cristiana: “…dare la vita per i propri amici”. Certamente, per la nostra Chiesa militare è un grande privilegio sapere che i più grandi dei suoi figli sono tutti degli eroi e che alcuni di essi sono anche Santi. Pertanto, l’impegno che la nostra Chiesa si assume, è che i suoi membri diventino veri soldati e veri cristiani. Desideriamo che la luce di Cristo, splendente nel volto della nostra Chiesa, illumini tutti gli uomini impegnati nell’annuncio del Vangelo ad ogni creatura.
Ma quale aspetto del volto di Dio risplende maggiormente nella nostra Chiesa? La Chiesa militare vuol essere una Chiesa che accoglie e tutela: Dio è amore, accoglienza e difesa di chi spera in Lui. Accogliere e difendere: due termini apparentemente in antagonismo, in realtà, consequenziali per coloro che hanno ricevuto la missione di difendere i più grandi valori dell’uomo.
La difesa di questi valori, a volte anche con la forza, può far apparire il nostro impegno per l’uomo in contrasto con i valori del Vangelo. Si potrebbe anche disquisire, ma la presenza dei nostri soldati in Bosnia dimostra come la pace debba essere difesa anche con la forza e, mentre accogliamo rispettosamente le motivazioni di chi in coscienza non si sente di portare le armi, riteniamo che essi non siano più pacifici dei nostri giovani impegnati nello sminare quelle terre. In questo momento voglio ricordare quella splendida e generosa gioventù, animata dai nostri cappellani, con i quali ho condiviso la gioia della Pasqua e che ho definito “uomini della Resurrezione”.
La nostra è una Chiesa che testimonia la vigilanza raccomandata dal Vangelo, cosciente che il ladro viene sempre di notte. La nostra vuol essere Chiesa che corregge e perdona. Il dovere di correggere è uno degli aspetti più difficili dell’esercizio della carità ed è una delle carenze più gravi della società di oggi: è più facile punire che correggere, perché per correggere è indispensabile avere il coraggio della carità.
La nostra Chiesa ha sentito la necessità di un rinnovamento totale per prepararsi adeguatamente al nuovo Millennio. Con questo Sinodo ci incamminiamo verso il 2000, per verificare la nostra fedeltà al Vangelo e, se necessario, trovare nuove strutture adeguate alla nuova evangelizzazione.
Abbiamo fiducia che il Padre ci darà quello Spirito che incessantemente chiediamo nella preghiera, affinché questa nostra Chiesa piaccia sempre più al Cristo, suo Signore.
La nostra è una Chiesa sempre in piedi, in mimetica e con gli anfibi ai piedi, pronta a partire a ogni comando del suo Signore. Vuol presentarsi al mondo senza macchia e senza ruga, santa e immacolata, così come la vuole il suo Sposo.

 

Assisi, 25 ottobre 1996.

 


Il centurione di Cafarnao

Si entra a far parte della Chiesa di Gesù Cristo attraverso i sacramenti dell’Iniziazione cristiana; si è membri di una Chiesa particolare risiedendo in un determinato luogo e poiché caratterizzata dal territorio, ogni diocesi è denominata “Chiesa locale”. Non può essere indifferente appartenere ad una o ad un’altra Chiesa locale: ognuna ha i propri santi, una propria storia, una propria pedagogia adatta a trasmettere la fede.
La Chiesa Ordinariato Militare ha una propria specificità: non è legata ad un territorio ma al particolare servizio che i suoi membri svolgono e trova la propria origine in quei soldati che hanno professato la fede in Cristo, hanno ricevuto la grazia della salvezza e sono stati tra i primi evangelizzatori.
Tra le fondamenta della nostra Chiesa si collocano i tre centurioni descritti nella Sacra Scrittura: quello di Cafarnao, quello di Gerusalemme e quello di Cesarea. Li vogliamo considerare come i nostri Padri nella fede, i primi tra i “nostri” che hanno aderito e testimoniato il Vangelo di Cristo.
Si può essere cristiani e militari? La risposta che troviamo nella loro vita, supera la stessa domanda: si può essere militari e santi.
Avviciniamoci il primo dei tre centurioni. Siamo a Cafarnao, nella Palestina settentrionale, in una città di confine del piccolo regno di Erode Antipa, intorno agli anni trenta. Vi troviamo l’ufficio doganale, quello a cui sedeva il pubblicano Levi (Mc. 2, 13-ss.); varie aziende familiari dedite alla pesca, come quella di Simone e Andrea o quella di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo; vi risiede una guarnigione di soldati comandata da un centurione. Nel suo esercito Erode Antipa aveva assoldato gente di tutto il mondo, inquadrandola secondo la ferrea disciplina e la struttura dell’esercito romano. Anche se le truppe di Roma non entreranno a Cafarnao che nel 44, la presenza dell’Impero era già forte in questo piccolo stato.
A noi interessa la figura del centurione. Chi era? Non conosciamo le sue origini, sappiamo che era inquadrato nell’esercito romano.
Quanta la “forza” alle sue dipendenze? Una centuria, circa duecento uomini, con la quale presidiava il territorio di Cafarnao.
La sua carriera? Era un veterano, un combattente valoroso che si era guadagnato i gradi combattendo sul campo. La categoria a cui apparteneva rappresentava il nerbo dell’esercito romano.
Quali le sue note caratteristiche? Sa essere vicino alla gente: “… ama il nostro popolo”. Sa cogliere e va incontro ai loro bisogni: “… è stato lui a costruirci la sinagoga”. Ama molto i suoi dipendenti ed ha a cuore un suo servo, forse l’attendente, “… che giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”.
Possiede un vero stile militare, sa stare al suo posto e farsi rispettare: “…sono un uomo sottoposto a un’autorità, e ho sotto di me dei soldati; e dico all’uno: Va’ ed egli va, e a un altro: Vieni, ed egli viene, e al mio servo: Fa’ questo, ed egli lo fa”. Lo stile militare è diventato il suo stile di vita: “… comanda con una parola e il mio servo sarà guarito”.
Qual è il suo rapporto con Cristo? Aveva sentito parlare di Lui, forse lo aveva già incontrato, certamente, aveva riconosciuto la diversità del potere di quest’uomo dal suo: a Gesù infatti, obbedivano quegli elementi sui quali neppure Roma aveva potere.
Non gli doveva nemmeno esser sfuggito il carattere religioso della predicazione del Cristo. Non sapeva nulla di più, ma ciò gli era sufficiente per riconoscere che quell’uomo non apparteneva a questo mondo, ma a quello di Dio. Per questo, provava nel suo intimo un sentimento vivo di religioso rispetto e, forse, una sua indegnità: desiderava conoscerlo, ma non osava avvicinarlo.
Egli non è il potente che chiede ad un altro un favore che, data la condizione, non può negare. Egli è umile nella sua vera umiltà: umiltà di uomo, di soldato. Poiché la malattia era ribelle ad ogni cura, non gli resta che ricorrere a quell’uomo: chiede a Gesù di guarire il suo servo. Gesù accogliendo la sua preghiera è disposto anche ad andare nella sua casa. Il centurione però non vuole chiedere troppo, teme di essere importuno: perché scomodarlo? “Signore non stare a disturbarti, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, … ma comanda con una parola e il mio servo sarà guarito”.
Il centurione attribuisce tutta la forza risanatrice alla parola di Gesù e, facendo riferimento al suo mondo e alla sua esperienza militare, la riconosce come parola di autorità: essa cioè, opera ciò che esprime, porta salvezza indipendentemente dalla presenza di colui che la dice.
Le parole del centurione sono parole di umiltà e di fede, e la sua umiltà e la sua fede, gettano nello stupore Gesù. L’uomo è forse un mistero anche per il Figlio di Dio? Gesù non gioca, non simula un sentimento che non ha: come è possibile allora che il Cristo si meravigli di quell’uomo? Un’autentica vita di fede diviene anche per Gesù motivo di ammirazione! Nella fede l’uomo supera se stesso entrando in comunione con Dio. Gesù contempla in quest’uomo l’azione dello Spirito: “Io vi dico che neanche in Israele ha trovato una fede così grande!”.
Diversa è la redazione dello stesso episodio nel Vangelo di Matteo e di Luca: ciascun evangelista sottolinea aspetti diversi, per noi interessanti. Matteo ci descrive l’avvenimento, così come ora lo abbiamo esaminato: il centurione va da Gesù e chiede la guarigione del servo che tanto amava. Luca al cap. 7, sottolinea invece l’umiltà del centurione che lo spinge non a presentarsi personalmente da Gesù, ma gli suggerisce prima di inviare alcuni “anziani dei Giudei”, più degni di lui per chiedere la guarigione del servo; poi, alcuni amici a pregarlo di non disturbarsi fino a venire nella sua casa. In questo racconto Gesù e il centurione neppure si incontrano, eppure si rispettano e si amano.
L’esempio del nostro centurione di Cafarnao ci insegna come un soldato debba rapportarsi a Cristo e ai suoi fratelli. In primo luogo, è indispensabile avere una fiducia incondizionata in Gesù e obbedienza assoluta alla sua Parola: essa infatti, è fonte di vita e da noi essa attende un’obbedienza assoluta per poter divenire con lei, inizio di un mondo nuovo, di quel mondo che ha come legge propria quella del Vangelo.
Il centurione ci insegna ancora come dobbiamo rapportarci con il fratello che cammina accanto a noi: “… lo aveva molto caro”.
Di tutto questo ci dobbiamo ricordare oggi quando, accostandoci all’Eucarestia, ripeteremo le parole del centurione: “Signore, io non son degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il tuo servo sarà guarito”.

 

Roma, 3 maggio 1999

 


Il centurione di Gerusalemme

Con lo sguardo fisso al centurione di Gerusalemme, scorriamo il racconto della passione di Cristo come descritta dall’evangelista Marco, per comprenderne il significato nascosto.
Il cristiano quando guarda alla morte di Gesù, sa di trovarsi di fronte all’evento più grande della storia, rischiando però di credere che tutti i protagonisti del racconto evangelico, fossero consci di questo, …ma non può essere così. Solo tenendo fermo questo presupposto si può percepire la grandezza della fede del centurione romano sotto la croce, una grandezza tale da divenire un modello per tutti noi.
Il Vangelo di Marco è stato composto a Roma e destinato ai cristiani della città eletta che in quegli anni stavano fronteggiando la prima grande persecuzione. L’esempio di un valoroso soldato, romano come loro, che si era guadagnato la salvezza non con la spada, ma con la fede, non era forse il più bello da presentare loro?
Il centurione, quando quel mattino era entrato nel Pretorio di Pilato per svolgere il suo servizio, non poteva immaginare che di lì a poche ore avrebbe incontrato il Figlio di Dio e che la sua vita sarebbe definitivamente cambiata. “E Pilato, volendo dar soddisfazione alla moltitudine, rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso” (Mc. 15, 15). Tutto è chiaro: il processo si conclude con la sentenza e Pilato consegna Gesù al centurione e ai suoi soldati per l’esecuzione della condanna.
Non è un incarico gradito: i veri soldati non amano questo compito da giustizieri che non ha nulla di glorioso, né di eroico. I soldati venivano incoraggiati a svolgere questo “lavoro sporco”, permettendo loro di dividersi i pochi effetti personali dei condannati: poca roba, perché spesso si trattava di delinquenti incalliti, schiavi o ribelli, gente che non poteva possedeva abiti di valore. Nel caso di Gesù la veste, forse, era uscita dalle mani di Maria: bella, tutta d’un pezzo, tanto che i soldati dissero: “Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca” (Gv. 19, 23).
Il centurione esegue il suo incarico. Gesù viene portato nel Pretorio, in quel cortile dove i soldati si riuniscono, vengono inquadrati prima di uscire in missione. Lì bisogna aspettare l’arrivo di tutti e tre i condannati perché il loro supplizio possa cominciare con la flagellazione: una tortura supplementare che aveva lo scopo di accorciare notevolmente la vita dei condannati. Durante l’attesa la soldataglia comincia a divertirsi alle spalle di Gesù: “Lo rivestirono di porpora e, dopo aver intrecciato una corona di spine, gliela misero sul capo. Cominciano poi a salutarlo: “Salve, re dei Giudei!” E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano a lui”.
Il centurione era presente e lasciava fare. Deve però aver iniziato a guardare quell’uomo in modo speciale, con uno sguardo che non avrebbe distolto fino alla morte in croce. Se qualcuno avesse intervistato il centurione in quel momento, non avrebbe potuto registrare in lui che una vaga inquietudine: quell’uomo era ancora un uomo, un essere degno di attenzione, di uno sguardo particolare. I condannati però debbono iniziare il cammino della croce.
“Allora costrinsero un tale che passava, un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna, … a portare la croce”: bloccare un passante per un lavoro coatto non poteva essere cosa decisa da un soldato semplice. Il condannato sembrava incapace di arrivare al patibolo; poteva morire lungo la strada: l’ordine però, era che morisse in croce. Forse, in quel momento, nel cuore del centurione ci fu posto per un po’ di compassione: una piccola luce cominciava a farsi strada nel cuore di quest’uomo rude e forte, un senso di rispetto e forse la consapevolezza che quest’uomo, come lui, avesse una missione da portare a termine sul Calvario.
“Condussero dunque Gesù al luogo del Golgota, … e gli offrirono vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese”. Pur nella durezza del suo compito, il centurione non perde il senso di rispetto per chi soffre e muore. Un rispetto nato sui campi di battaglia, quando la sofferenza e la morte diventano pane quotidiano: per questo offre a Gesù del vino drogato che lo possa stordire e lo aiuti a sopportare la morte. Ma Gesù vuol affrontare la morte “senza bende sugli occhi”. Egli non è un timoroso che piange davanti alla condanna, ma un eroe che compie il proprio dovere fino in fondo: gli occhi del centurione si spalancano ancora di più su di Lui.
Ma chi è quest’uomo? Un pazzo? Un incosciente? Un fallito che vuol morire? Il dubbio si insinua. Tutti sul Calvario guardano verso quel condannato che sta per morire e lo schermiscono, gli danno del pazzo: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce! … Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo”.
Mentre le grida e le offese si susseguono, il centurione sente il condannato che prega, prega Dio con un salmo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Da quella invocazione il centurione capisce il legame tra quel crocifisso e Dio: è il grido di un morente che invoca il padre. Quante volte sui campi di battaglia aveva sentito le grida dei morenti, che invocano chi si ama davvero, chi è al centro dei nostri pensieri e occupa un posto importante nel nostro cuore. Questo presunto delinquente, questo presunto rivoluzionario, questo presunto pazzo o illuso, ora invoca Dio, in piena verità come un figlio morente può invocare il proprio padre.
La fede del centurione inizia qui, sotto la croce, e comincia proprio da quel grido: “Allora il centurione che gli stava di fronte, vistolo spirare in quel modo disse: “Veramente quest’uomo era il figlio di Dio!” (Mc. 15, 39) Il collega di Gerusalemme è il modello della nostra fede: come lui, anche noi siamo condotti sulle strade della vita, dove incontriamo l’uomo, lo riconosciamo figlio di Dio.
Essere soldati significa allora per noi, mettersi a servizio di quest’uomo per difenderne la vita, i valori…, disposti a rischiare la nostra stessa vita: “Chi ama la propria vita la perde, chi dona la propria vita la trova”. “Chi ama la propria vita più di me, non è degno di me”. “Vi do un comandamento nuovo: Amatevi, come io vi ho amati”.
Per poter donare la vita, bisogna prima riconoscere che ogni uomo è un figlio di Dio: è figlio di Dio l’immigrato, il clandestino; è figlio di Dio il profugo, il deportato; è figlio di Dio il bisognoso, il debole, il povero. È figlio di Dio anche il “nemico”, reso tale dal peccato e irriconoscibile dall’egoismo, il nemico da immobilizzare e da rendere incapace di un male maggiore. E poiché figlio di Dio è ogni uomo, il nostro servizio sia, in ogni momento, espressione di autentico amore.

 

Roma, 4 maggio 1999

 


Il centurione di Cesarea

Incontriamo oggi il terzo centurione, Cornelio.
Chi era? Dal suo libretto matricolare leggiamo queste notizie: è italiano, centurione a Cesarea dove vive con la famiglia.
Le sue note caratteristiche sono eccellenti. “Uomo pio e timorato di Dio”: un credente convinto e convincente, tanto da avere contagiato col suo esempio l’intera famiglia e i suoi commilitoni. Crede nel Dio di Israele ed è obbediente alle prescrizioni della legge mosaica, senza essere passato formalmente al giudaismo. Il suo comportamento religioso è segnato dalla carità e da una costante preghiera per chiedere luce e guida, per crescere nella fede e nel timore di Dio, le sue opere sono molto apprezzate così come le sue preghiere. Dio interviene nella sua vita e, gratuitamente e generosamente, lo guida sulla retta via. In lui ravvisiamo il modello classico dell’uomo di buona volontà, ricco di concretezza e di umiltà.
Il centurione Cornelio diviene strumento dello Spirito Santo per illuminare la Chiesa nascente su un problema di fondamentale importanza: l’ammissione dei pagani nella Chiesa.
Ecco come si svolsero le cose. Un angelo di Dio appare a Cornelio per dirgli di invitare l’apostolo Pietro a casa sua. Egli allora, per rintracciarlo, invia i suoi servitori a Giaffa dove, trovatolo, lo invitano a Cesarea. Nel frattempo Pietro ha una visione nella quale è invitato a mangiare cibi ritenuti immondi e gli viene detto di esaudire coloro che bussano alla sua porta. Pietro li segue con fiducia e arriva nella casa di Cornelio dove, dopo aver confrontato le rispettive visioni, risulta chiaro il messaggio che il Signore vuol dare loro: “Dio non fa preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”. Nella casa di Cornelio, Pietro si ferma alcuni giorni, annuncia il dono di salvezza e battezza Cornelio e tutta la sua famiglia.
Questo racconto biblico è per tutti i militari di fondamentale importanza. Attraverso un soldato italiano Dio, guida l’apostolo Pietro, il primo Papa, a prendere una grande decisione: offrire anche ai pagani l’annuncio della salvezza ed egli, per primo, si fa battezzare con la sua famiglia.
Non deve essere stato facile per i due obbedire ciecamente allo Spirito Santo che li costringeva a nuove scelte. Pietro vuol essere fedele a Dio e all’antica legge che gli vieta di mangiare cibi immondi: “No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo”. Lo Spirito Santo invece, gli insegna un’obbedienza più grande: egli non deve rimanere chiuso in uno schema umano, ma deve lasciarsi guidare da Dio verso una giustizia più grande. Abituato ad un certo stile di vita, si libera dai pregiudizi e aderisce all’invito del centurione. Dio educa pazientemente Pietro a non più far distinzione tra cibi puri e impuri, tra amici e nemici, ma considerare tutti come fratelli.
Anche Cornelio si rivela profondamente libero pur avendo tutte le condizioni per non esserlo: è un pagano passato al giudaismo e, come spesso avviene, questi convertiti tendono a divenire dei fanatici; è un militare e per i militari la tradizione è sacra: “Si è sempre fatto così”. Invece, possiede tanta maturità e apertura di cuore da obbedire, prontamente, all’invito di Dio che lo spinge a lasciare il giudaismo per una fede più grande. Nei molteplici gesti di carità concreta poi, emerge la grande virtù di Cornelio. La carità infatti, ci fa vedere il mondo in modo nuovo, ci fa scoprire gli altri non come degli avversari o dei nemici, ma come dei fratelli.
La logica religiosa della purità-impurità divideva gli uomini. Lo Spirito Santo conduce Pietro da Cornelio ed egli lo accoglie in casa sua: essi vivono una nuova logica, quella della fratellanza e dell’unione, della ricerca di ciò che unisce, piuttosto di ciò che divide.
Questo vero cristiano è l’esempio per questa nostra Chiesa che prega e vuol vivere pienamente la carità, che adora il vero Dio e lo vuol servire nei fratelli.

 

Roma, 5 maggio 1999

 


Quando Pietro entrò nella casa del centurione di Cesarea, visti Cornelio, la sua famiglia e i suoi amici disse: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”.
Pietro stamani ci ha benevolmente accolti nella sua casa. Rappresentiamo il popolo militare e con noi, spiritualmente, sono qui presenti tutti i soldati cattolici delle Forze Armate Italiane per pregare e concludere solennemente sulla tomba di Pietro, questo primo Sinodo della Chiesa Ordinariato Militare d’Italia.
Siamo qui portando con noi tutte le nostre ansie e tribolazioni; siamo qui soprattutto con quel dono del “timore” e con quel “desiderio di giustizia”, per cui ci sentiamo accetti a Dio.
Il precetto evangelico della carità che noi ben conosciamo, vogliamo diventi la vera anima del nostro servizio. Nella storia della nostra Chiesa infatti, non ci è mai mancato l’eroismo della carità: anche noi abbiamo i nostri martiri! Oggi però, per un soldato non è sempre facile testimoniare la carità, perché il nostro modo è inusuale e, forse, incompreso.
In questi giorni i “nostri” stanno scrivendo stupende pagine di autentico servizio alla carità nello svolgimento delle missioni in Albania, in Macedonia, in Bosnia: accogliere i profughi e i deportati, organizzare loro autentiche “città della gioia”, essere le mani e il cuore del Popolo italiano che vuole soccorrere questi poveri, è grande ed esaltante.
È però inusuale esercitare la carità pattugliando, armati di tutto punto, città e villaggi, rischiando la propria vita affinché i fratelli non si uccidano: anche se la pace è forzata, una pace imposta, è sempre meglio della morte.
La nostra Chiesa vive la carità sminando, con le proprie mani, immensi territori per restituirli abitabili e renderli fecondi. Vive la carità demolendo le fabbriche di guerra, con il timore di uccidere, di portare la morte, volendo invece, gettare le basi per una nuova vita. Il nostro esercizio della carità non è facile: si può rischiare di uccidere, anche in una “missione umanitaria”.
“… Io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”: questo, pur con timore, vogliamo sentirci dire dal Signore.
Siamo venuti qui sulla tomba di Pietro per confermare la nostra fede e ribadire la scelta fondamentale della nostra vita: il Vangelo, unica regola della nostra esistenza. Solo il Vangelo infatti, è l’unico progetto degno di essere pienamente realizzato perché porre le basi di una costruzione che dura per l’eternità.
Siamo qui perché vogliamo costruire la nostra casa sulla roccia, non sulla sabbia: ecco il motivo per cui abbiamo scelto il Vangelo come nostro unico progetto di vita. Ciò che non è Vangelo è effimero e passa, ciò che è Vangelo rimane.
Pietro ce lo ha dimostrato concretamente. A lui infatti, fu chiesta una cosa sola: “Pietro, mi ami?” Perché? Perché il primo e più grande dei comandamenti è questo: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze e il prossimo tuo come te stesso”. Anzi, Cristo ci chiede ancora di più: “Amatevi come io vi ho amati”; “Non c’è amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”. È proprio vero: alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore.
Qui, sulla tomba di Pietro, chiediamo al Signore di poter essere santi, disposti cioè a portare il nostro amore fino a quell’eroismo di cui i nostri fratelli hanno bisogno e che il Signore si attende da noi.

 

Sulla tomba di san Pietro
6 maggio 1999