Assemblea Generale AMI – Intervento dell’Ordinario

Assemblea Generale AMI

Reichenau An Der Rax (Austria), 10 settembre 2019

 

Servire, non essere serviti:

la spiritualità nei gradi militari più alti e più bassi

Il cuore della riflessione dell’Assemblea AMI di quest’anno è in una parola: «servire». Non è parola semplice. Da una parte è scomoda, dall’altra è abusata e rischia di esserlo ancor più in ambito militare: parliamo, infatti, di “servizio” militare.

Il servizio, in realtà, fa parte del DNA del militare. Il tema del nostro Convegno, tuttavia, chiede un passo ulteriore; chiede di entrare nella logica del servizio che interpella soprattutto la dimensione “spirituale”, indicata dalle parole stesse di Gesù: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire» (Mc 10,45).

Il Vangelo di Marco, da cui il brano è tratto, utilizza il termine greco diakonéin, verbo che sta a significare “servire” nel senso del mettersi a servizio di una determinata situazione, per esempio mettersi al servizio della tavola. Deriva da qui il termine diàkonos, colui che è “servo”, che si mette al servizio del suo prossimo; e rispetto ad altri termini usati per indicare il servire, il verbo diakonèin accentua il servizio compiuto “per amore”.

Nei versetti immediatamente precedenti, l’evangelista definisce diàkonos, «servo», colui che vuole essere «grande»; e usa un termine ancora più forte, vale a dire doùlos, «schiavo» – «schiavo di tutti» – per indicare colui che vuole essere «primo». E il Cristo stesso viene chiamato doùlos da San Paolo che, nella Lettera ai Filippesi (Fil 2,7), riprende l’antica profezia di Isaia sul «servo del Signore».

Servo e schiavo. Le parole sembrano forti, come dicevamo. E, tra queste parole, il tema che mi è stato affidato si snoda in una delicata prospettiva: la dimensione del servire nei diversi ruoli, ranghi, gradi del servizio militare. Il tema del servire li attraversa trasversalmente, riguarda tutti.

 

Da una parte, c’è un servizio che si sviluppa, potremmo dire, verso l’esterno: concerne i diversi compiti, il ruolo espletato nei confronti dei cittadini, delle Istituzioni, delle responsabilità che i diversi Paesi affidano alle Forze Armate. Per quella che è la mia esperienza in Italia, ma anche in alcuni Paesi esteri, posso affermare che a un tale servizio la comunità militare, nelle sue diverse Forze, educa con cura, sviluppando un alto senso di responsabilità di cui oggi si avverte una seria mancanza.

Sì, il vostro è, anzitutto, un prezioso servizio di responsabilità. La cultura post moderna, invece, esasperata dal soggettivismo individualista imperante, stenta a proporre una seria assunzione delle proprie responsabilità, in campo familiare come in ambito lavorativo, ancor più a livello sociale e politico. Le conseguenze si ripercuotono sulla convivenza pacifica e giusta, sul senso del bene comune, sulla custodia del creato, sull’attenzione al prossimo, soprattutto alle persone più fragili e vulnerabili. Tali conseguenze, tuttavia, non vengono recepite con l’allarme necessario; e la cultura della deresponsabilizzazione crea un vero e proprio vuoto relazionale che diventa, in ultimo, un preoccupante vuoto educativo.

L’educazione militare è, in questo senso, un prezioso servizio ed è un’educazione al senso del servizio che rende il vostro operato straordinariamente efficace, un autentico “prendersi cura”: nella difesa della vita umana, nel mantenimento dell’ordine, nella cura della casa comune, nel soccorso nelle calamità naturali, nell’accoglienza di tanti profughi e migranti, nelle missioni speciali contro la criminalità organizzata o il terrorismo internazionale, nelle diverse operazioni ad alto rischio, fino al rischio stesso della vita. Quale «servizio» potrebbe essere più concreto e alto?

«Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Il servizio d’amore, fino al dono della vita, è offerto a questi «molti», da intendere non in senso numerico ma come popolo che non esclude nessuno.

È a questo servizio incondizionato che la formazione dei militari punta. E formare al servizio significa viverlo, non solo verso l’esterno ma “ad intra”, all’interno delle dinamiche di quella che, non in modo teorico, amiamo definire la “famiglia militare”. «Non per essere servito ma per servire»: è il servizio vicendevole che costruisce ogni famiglia, dunque la stessa famiglia militare, nei suoi diversi ruoli e gradi.

 

Il verbo servire, dicevamo, coinvolge trasversalmente questi diversi ruoli militari, li accomuna. Da un parte, cioè, servire significa obbedire; dall’altra parte, servire significa comandare, governare. E se il genere di servizio di cui parliamo è un servizio d’amore, esso non è legato solo a motivi di organizzazione ma si proietta verso la libertà, propria e dell’altro.

Servire, dunque: per obbedire senza “servilismo” e per comandare senza “dominio”.

Una logica concreta, che si traduce nel vivere nel mondo ma supera le logiche del mondo. Il discorso di Gesù nel Vangelo non ha connotazioni politiche; dimostra di conoscere le scalate al potere, l’abuso dell’autorità, la ricerca di onori e privilegi, la corsa alla carriera. «Tra voi non è così», Egli afferma tuttavia. Non un auspicio ma un dato di fatto.

Ci chiediamo, pertanto: quali atteggiamenti spirituali promuovere per crescere in questo servizio vicendevole? Provo a declinarli in poche parole.

 

  • Ascolto e collaborazione.

Servire significa ascoltare e il termine ascoltare, come sappiamo, è incluso nella parola latina ob-audire; chi obbedisce ascolta gli ordini e ciò consente di portare avanti un servizio “ordinato”, la cui impostazione si può riconoscere nelle direttive dei superiori. Anche chi comanda, tuttavia, deve saper ascoltare i sottoposti, coloro di cui è responsabile; ascoltare le persone, conoscere le loro storie ed esigenze, ma anche ascoltare le esperienze del servizio che essi  svolgono, le difficoltà che incontrano, le domande che, a loro volta, intercettano sul territorio e da parte dei cittadini. Ascoltare è un modo di leggere la realtà, per poi affrontarla con le giuste decisioni.

Nasce da qui il senso della collaborazione. Da una parte, la disponibilità di chi obbedisce a offrire le proprie competenze, il tempo, la creatività, accogliendo le indicazioni ricevute. Da parte di chi comanda, collaborazione significa fiducia, la fiducia che, portando alla luce il meglio di ciascuno, rende il servizio di tutti armonioso, qualificato e completo.

 

  • Sguardo e cura

Per sviluppare questa fiducia occorre saper guardare. Guardare “oltre”, quando a chi obbedisce gli ordini da eseguire sembrano più pesanti, faticosi, rischiosi, sproporzionati. Guardare dall’alto, perché chi comanda possa rispettare l’unicità di ciascuno, mettere insieme tutti e accorgersi del passo di tutti, soprattutto dei più fragili e di coloro che hanno bisogno di maggiore cura.

Servire è prendersi cura. E prendersi cura significa “farsi carico”. Il Vangelo lo insegna, nella Parabola del Buon Samaritano come nella Lavanda dei piedi. E ci si fa carico non semplicemente di un compito, di una missione ma “dell’altro”: tanto di chi comanda quanto di coloro ai quali si comanda.

 

  • Dedizione e sacrificio

È questo che rende possibile la dedizione incondizionata, vale a dire il dono di sé, la consegna di sé che può arrivare anche al sacrificio della vita; un atteggiamento presente in tutti i militari, ma che caratterizza maggiormente chi è più alto in grado. Vorrei raccontarlo con l’esempio di un militare italiano, Gianfranco Chiti, un uomo che visse l’esperienza della seconda guerra mondiale e della campagna di Russia, attraversò i diversi gradi militari fino ad essere un generale molto amato; infine, seguì la vocazione al sacerdozio tra i frati cappuccini e, attualmente, è in corso il processo di beatificazione. Egli, che da giovane scelse la vita militare come sacrificio per la Patria, maturò poi un grande senso di autorevolezza, cura e protezione verso coloro nei confronti dei quali aveva responsabilità di guida: in particolare, i “suoi” granatieri, dei quali seguiva con attenzione vicende militari e personali, prendendone spesso le difese. Seppe sviluppare uno straordinario senso di compassione nel contatto con ogni caduto e la sua famiglia. Seppe “condividere”, fino a vivere in prima persona eventi che lo avevano visto inizialmente soltanto stare accanto agli altri; come il trovarsi prigioniero in campi di internamento, lui che aveva assistito i prigionieri. Si trovò quasi a svolgere un compito simile a quello di cappellano militare, prima ancora di comprendere la sua vocazione al sacerdozio, lui che aveva instaurato un rapporto intenso con il suo cappellano, arrivando a una grande esperienza di collaborazione; perché anche la collaborazione tra superiori e cappellani porta frutti fantastici quando sia rivolta alla ricerca del bene dei militari e alla loro crescita nel senso del servizio.

 

Accanto alla formazione professionale e alla formazione umana, ammirevolmente curate dalle Forze Armate, è dunque di centrale importanza la formazione spirituale, affidata alle Chiese particolari degli Ordinariati Militari e sorretta con grande impegno di vita e preghiera dall’AMI.

È il cammino quotidiano, nel quale i nostri cappellani accompagnano i militari e le loro famiglie, grazie alla presenza in tutte le unità, le caserme, le missioni militari. È la condivisione delle situazioni di emergenza, rischio, violenza, dove essi portano avanti un instancabile ministero di compassione, preghiera e consolazione. È la creatività delle iniziative pastorali, diverse nei diversi contesti culturali; in questo momento storico della vita della Chiesa, penso a due ambiti che in particolare toccano la nostra vocazione di Chiesa per la pace: la pastorale del creato, nel contesto di una ecologia umana integrale, così ripetutamente incoraggiata da Papa Francesco a partire dalla Laudato si’; la pastorale dei giovani, rilanciata dal Sinodo e dall’Esortazione Apostolica Christus Vivit. Credo che, così come in Italia, anche nelle altre Nazioni le nostre siano le Chiese con il numero maggiore di giovani, che possiamo incontrare e formare affinché, da militari, crescano nella gioia di servire e, man mano che diventano “grandi” nel grado, possano diventare “grandi” nell’amore.

Come testimoniano ancora le parole di Gianfranco Chiti davanti ai “suoi” ragazzi caduti, con le quali concludo: «Ne ho visti morire tanti», scrive nelle lettere: «giovani ragazzi che ho amato e sento di amare più di me stesso. Per questo sempre ho chiesto al Signore di prendersi me, piuttosto che uno di loro».

Grandi nell’amore, per servire così.

10-09-2019