Omelia alla Celebrazione per l’incontro familiari dei caduti nelle missioni internazionale di sostegno alla pace

21-03-2018
Basilica S. Maria degli Angeli e dei Martiri, 20 marzo 2018

 Carissimi, il nostro, ogni anno, è un appuntamento che attendo con silenziosa gioia e al quale cerco di preparare il cuore in modo particolare. È un momento di incontro importante, in cui ricevo molto dalla testimonianza di ciascuno di voi e dei vostri cari, caduti nel compimento del loro dovere per difendere i valori grandi della dignità umana, della libertà personale e religiosa, della giustizia, della pace. Uomini delle Forze Armate che hanno dato la propria vita allo scopo di difendere o promuovere la vita dei più piccoli e deboli, di coloro i cui diritti sono conculcati, dei tanti che subiscono ingiustizie, violenze, discriminazioni, persecuzioni; alcuni sono caduti in situazioni a rischio, altri nel mantenimento dell’ordine quotidiano, in incidenti sul lavoro, nel corso di esercitazioni… tutti accomunati da un alto senso del servizio, dal non pensare a se stessi ma al bene degli altri e al bene comune. Per questo provo gioia nel trovarmi tra voi: grande gioia, speranza, gratitudine; perché, se c’è chi sa vivere così, è segno che nel mondo non cresce solo il male, magari quel male per il quale i vostri cari sono morti, ma viene seminato un bene che germoglia in modo imprevisto ma certamente fecondo. Il Vangelo di domenica scorsa lo ha ricordato con forza (cfr. Gv 12, 20-33): quando «il chicco di grano caduto in terra muore porta molto frutto». Non semplicemente frutto ma «molto» frutto. Un frutto che ha un grande valore, un prezzo elevato, non quantificabile; perché il prezzo di una vita non riconosce le scale di misura dell’economia o della finanza… è il prezzo altissimo del dolore di voi che oggi siete qui, delle vostre famiglie, delle tante famiglie dei nostri caduti. È un dolore dal quale può nascere la gioia di cui parlavo ma rimane profondo, vero, acuto: dolore che condivido, con cuore di padre e lacrime di fratello. La Parola di Dio, oggi, ci aiuta a dar voce a questo dolore con la supplica del Salmista: «Signore, ascolta la mia preghiera, a te giunga il mio grido di aiuto. Non nascondermi il tuo volto nel giorno in cui sono nell’angoscia» (Salmo 101). Anche la prima Lettura (Nm 21,4-9) descrive il nostro stato d’animo. Siamo in uno dei momenti più difficili affrontanti dagli Israeliti: liberati dal faraone d’Egitto, essi hanno attraversato in modo mirabile il Mar Rosso ma ora, nel deserto, sperimentano difficoltà, prove, sofferenze insopportabili, che li portano a lamentarsi «contro Dio», fino a rimpiangere la stessa schiavitù. È quanto viene descritto in questa pagina biblica: la Terra Promessa, che pure era stata intravista, sembra irraggiungibile; il popolo è in ritirata (se notiamo, sta tornando verso il Mar Rosso…), è stanco, nauseato dal cibo leggero, senza pane e acqua; teme di morire e, alla fine, la morte sembra davvero avere la meglio, a causa del morso di serpenti velenosi. Non è forse così il nostro dolore? Non è forse vero che ci siamo ritrovati nel deserto, nel vuoto lasciato dai nostri cari, laddove tutto ci è sembrato provocare nausea rifiuto, paura (e forse a volte anche voglia) di morire? Non è forse vero che il dolore è stato, è, bruciante, lancinante, come il morso di serpenti velenosi? Eppure, in questo deserto, Dio pone un «segno», per gli Israeliti e per tutti noi. Paradossalmente, il segno è ancora il serpente; questa volta, però, il serpente trafitto da un’asta, sconfitto, messo in condizioni di non seminare più morte ma, addirittura, di dare vita: «chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita», dice il testo. Sì, sembra paradossale. La vita, la speranza, può rinascere non fuggendo dal dolore, negando o anestetizzando – come la nostra cultura oggi porterebbe a fare – il dolore; ma “dentro” il dolore, trafiggendo quel dolore che, come anche per molti di voi è accaduto, può arrivare a seminare testimonianze e frutti e di vita, dai quali tutti dovremmo imparare. Non è un’operazione immediata e neppure facile, non cambia le situazioni esterne: se ci pensiamo bene, avviene nel deserto e lascia nel deserto ma, potremmo dire, inverte la rotta, trasforma il cuore; così, il dolore, che pure non passa, non ha più l’ultima parola, perché la morte non ha l’ultima parola. Siamo nel deserto; e, in questo deserto, a un certo punto ci si rimette in cammino, in cammino come popolo. È quanto accade oggi: il fatto di essere qui insieme ci rende famiglia, comunità, Chiesa autenticamente unita dal dolore, dalle lacrime, ma anche dalla speranza. In una parola, unita dalla Croce. Sì, è questo che cambia tutto: il segno del serpente nel deserto è il «segno» della Croce, del Crocifisso. Quante volte ci viene da pensare alla Croce sulla quale i nostri cari sono stati inchiodati! Quante volte ci chiediamo come saranno stati gli ultimi istanti della loro vita, quanta sofferenza avranno patito, se tutto poteva in qualche modo essere evitato… domande che forse ci tormentano e per le quali non c’è risposta, c’è solo il «segno» che Gesù stesso ripropone oggi nel Vangelo (Gv 8,21-30). Egli sa che i presenti non riescono a comprendere le sue parole: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono», afferma dunque con tono solenne, quasi a dire che il senso della sua Vita, la sua stessa identità è, per così dire, spiegata da quel misterioso «innalzamento». Gesù richiama proprio il segno del serpente, innalzato nel deserto, alludendo alla Croce sulla quale, di lì a poco, Egli sarà «innalzato». E come il serpente, trafitto, era diventato strumento di vita, così Gesù, trafitto sulla Croce sarà Sorgente di vita per tutti. Penso che qui anche noi possiamo cogliere la vera identità dei nostri cari, il senso di un servizio che, come ho detto altre volte, ha permesso loro di morire allo stesso modo in cui hanno desiderato vivere: nella dedizione totale, fino a un dono della vita che potesse significare protezione e difesa per altre vite. È interessante, tuttavia, notare come lo stesso verbo greco che descrive questo «essere innalzato» di Gesù – hypsoùn – sia usato negli Atti degli Apostoli (2,33; 5,31) per accennare alla Sua Ascensione, alludendo a un evento che avviene dopo la Risurrezione. Ed è proprio così. La Croce di Cristo, quella Croce sulla quale i vostri cari hanno offerto la loro esistenza e sulla quale la vostra stessa sofferenza vi colloca, è Vita non solo per gli altri ma anche per chi soffre e per chi muore. Essere trafitti dal dolore, essere innalzati nella morte, è già vivere nel Mistero della Pasqua di Cristo del quale, a giorni, celebreremo la Passione e la Morte, la Risurrezione e la Vita. Cari amici, è il Signore Risorto che si pone accanto a noi, al nostro dolore, in questa Celebrazione come in ogni Eucaristia. La Sua Croce e la Sua Risurrezione sono, potremmo dire, un unico «innalzamento», un unico gesto, che non toglie il dolore ma lo riempie di vita, di fecondità, di amore e di comunione. Nel Vangelo, un’altra piccola parola ce lo assicura, procurandoci, nel dolore, il dono della consolazione e della speranza. «Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo», dice Gesù. Egli, sulla Croce, ha sentito l’abbraccio del Padre e noi, sulle nostre Croci, sentiamo il Suo abbraccio. Egli, il Signore Risorto, al quale i nostri cari ora vivono vicini, è stato accanto a loro anche sulla croce, nei momenti più duri della sofferenza e della morte. Sì, cari amici: sulla Croce, Dio non ci lascia soli! Sulla Croce, ritroviamo Lui, innalzato nella Morte e nella Risurrezione. Sulla Croce ritroviamo i nostri cari, che tanta vita hanno seminato e continuano e seminare. Sulla Croce ci ritroviamo insieme, a camminare per mano, in questo deserto di morte e dolore nel quale, con l’amore, già fiorisce la gioia della Vita Eterna. Grazie! Così sia! E buona Pasqua!  X Santo Marcianò