L’omelia dell’Ordinario nella celebrazione per l’ordinazione sacerdotale di Giuseppe Maria Balducci

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 Come annunciato precedentemente, il 26 ottobre, per l’imposizione delle mani e la preghiera consacratoria di S.E. Mons. Santo Marcianò, è stato ordinato presbitero Giuseppe Maria Balducci. Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata dall’Ordinario.

    «Ti amo, Signore, mia forza!».   Carissimi fratelli e sorelle, è il grido che la Liturgia mette oggi sulle nostre labbra, sulle tue labbra, caro Giuseppe. E quale grido saprebbe meglio esprimere lo stato d’animo che certamente abita il tuo cuore? Ti accolgo e ti saluto con gioia e commozione, ringraziando con te il Signore in questo giorno benedetto della tua Ordinazione presbiterale – sei il primo cappellano militare che ho il dono di ordinare – al termine di un cammino serio e profondo nel nostro Seminario dell’Ordinariato. Saluto la tua famiglia, primo Seminario e culla della tua vocazione: grembo dell’amore capace di donarsi a Dio e ai fratelli, del quale oggi tu ricevi la pienezza. Saluto tutta la comunità del nostro Seminario: rettore, vice rettore, padre spirituale, seminaristi. Ringrazio ancora la nuova équipe per aver accolto la chiamata a portare avanti un ministero che considero di primaria importanza per la nostra Chiesa, per il suo presente e il suo futuro. Sento profondamente mie le parole di Giovanni Paolo II quando scriveva che il Seminario è la «pupilla degli occhi» del vescovo e non mi stancherò mai di ricordarne l’importanza e la corresponsabilizzazione di tutti i fedeli – sacerdoti, religiosi e laici – nei suoi confronti. Saluto i parenti e gli amici di Giuseppe, i carissimi cappellani militari, gli altri sacerdoti e tutti voi qui presenti. Lasciamoci quasi condurre dal salmista, penetrando quelle poche parole che bastano a dare un senso a tutta la nostra Liturgia; bastano, caro Giuseppe, a offrirti un patrimonio al quale potrai attingere, per tutta la vita di sacerdote: «Ti amo, Signore, mia forza!».   «Ti amo»: è il grido della carità. E il Vangelo (Mt 22,34-40) oggi inequivocabilmente lo conferma: tutto è centrato sull’amore. «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente… e il prossimo tuo come te stesso». Sì: «L’amore è tutto», direbbe Santa Teresina di Lisieux. E l’amore chiede tutto. Questa intuizione è alla base del cammino vocazionale, è il segreto del sacerdozio che, in quel «tutto», non vede un limite ma una pienezza. Di questo «tutto d’amore» oggi tu, caro Giuseppe, diventi icona. Nella misura in cui abiterà il tuo cuore, la tua mente, il tuo corpo, esso risplenderà in te e, attraverso te, raggiungerà davvero ogni uomo, nelle sue periferie. Oggi più che mai il mondo è assetato d’amore, per questo Cristo ti ha scelto come Suo sacerdote! È assetato di un amore capace di riversare fiumi di verità e giustizia, di misericordia e perdono, di consolazione e guarigione. È assetato di quell’amore che si fa Persona in Cristo e raggiunge l’uomo attraverso la Grazia che tu stesso potrai permettere a Dio di elargire nei sacramenti. Una Grazia che ti contiene e ti supera, che lavorerà attraverso te anche quando ti sembrerà di essere debole o di fallire. Il “munus santificandi”, che oggi ricevi, significa essere canale di questa Grazia e di questo amore, che si fa carne in quei poveri che il Papa chiama la “carne di Cristo”. La prima Lettura (Es 22,20-26) ne ha enumerati alcuni: «il forestiero, l’orfano, la vedova, l’indigente…». Non si tratta, evidentemente, di categorie esclusive ma quasi di una rappresentazione di ciò che il tuo amore sacerdotale, da oggi, ti fa diventare: casa accogliente, padre premuroso, sposo che offre la vita, pane che si fa mangiare. E l’amore – ecco il Mistero grande! – lo vivrai in Persona Christi, perché a Lui il sacerdozio ti ha ormai conformato. Anzi (come dicevamo ieri in cappella) ipse Christus, cioè: Lui. Non più tu ma Lui, come S. Paolo.   «Ti amo, Signore»: è il grido della fede Colui che ama così è, in realtà, il Signore, il Dio della tua vita. E la fede in Lui è fondata sulla Sua Parola, da accogliere sempre con gioia e da trasmettere con fedeltà. Dall’amore, dice il Vangelo, «dipende» la Legge. Il verbo greco che traduciamo con «dipende» (crématai) significa letteralmente “appendere” ed è lo stesso verbo che descrive Gesù appeso alla Croce. È come se tutta la legge, tutta la Rivelazione fosse appesa a un chiodo: se crolla l’amore, crolla tutto. Nell’amore, quindi, anche il tuo “munus docendi” trova senso. Non lo dimenticare, caro Giuseppe. La legge di Dio è sempre possibilità di amore, in essa l’amore è sempre contenuto. Questo è vero per i Comandamenti, per la Legge naturale, per la Legge morale. L’amore non va cercato fuori ma dentro la legge; e la legge non va interpretata fuori ma dentro l’amore. Potremmo dire, come ha fatto il Papa a conclusione del Sinodo, che bisogna evitare tanto «la tentazione dell’irrigidimento ostile, cioè il voler chiudersi dentro lo scritto» quanto «la tentazione del buonismo distruttivo, che a nome di una misericordia ingannatrice fascia le ferite senza prima curarle e medicarle»; tanto «la tentazione di trascurare il “depositum fidei”, considerandosi non custodi ma proprietari e padroni» quanto «la tentazione di trascurare la realtà»[1]. In una parola, potrai essere maestro se servirai la verità. L’uomo cerca la verità nelle sue imprese scientifiche, nelle profondità spesso oscure del suo pensiero, negli affanni del cuore. E il sacerdozio, in fondo, è la risposta di Dio alla ricerca dell’uomo, perché la verità non è una teoria filosofica né una dimostrazione empirica: la verità è Cristo, quel Gesù che ti ha chiamato e amato, e la cui Parola sei chiamato ad annunciare anche – come ha detto Paolo nella seconda Lettura (1Ts 1,5-10) – «in mezzo a grandi prove». Le prove non mancheranno; la verità, però, andrà vissuta e annunciata, senza riduzioni né fondamentalismi ma con l’amore che, come Gesù, ti tiene appeso alla Croce da cui, dicevamo, dipenderà tutta la bellezza e l’efficacia del tuo ministero.   «Ti amo, Signore, mia forza». È il grido della speranza. L’oggetto del tuo amore, il tuo Signore che è verità dell’uomo, è infine la tua forza. È, come dice il Salmo, la tua «roccia», che mai verrà meno. Non lo hai forse sperimentato nella tua vita? Non hai forse la certezza che è la fedeltà di Dio a permetterti di essere oggi qui? Lui è il Fedele. E la speranza di questa fedeltà ti fa pastore; ti permette di guidare quel gregge che oggi il Signore ti affida definitivamente, mettendo nelle tue mani coloro che Egli stesso guida. La speranza, necessaria al “munus regendi”, è racchiusa completamente in questa certezza, fondata sulla più profonda certezza che l’uomo appartiene a Cristo, la Chiesa appartiene a Cristo; e a Cristo appartiene la nostra Chiesa Ordinariato Militare. Il ministero pastorale a cui l’Ordinazione oggi ti consacra è quello di cappellano militare: un modo speciale, direi unico – devi crederlo fortemente -, di essere pastore, di condurre, di guidare, di dare la vita per le pecore. I militari, pronti a dare la vita nell’adempimento del dovere, hanno bisogno di qualcuno che dia la vita per loro, e non a motivo di un semplice senso del dovere ma per un puro mistero d’amore. Hanno bisogno di sentirsi amati da Dio, di leggere con lo sguardo dell’infinito ciò che accade nel finito di una realtà che li vede a contatto con le povertà dell’emarginazione, della violenza, della criminalità, della stessa guerra. Hanno bisogno di qualcuno che condivide la loro vita e li sostiene nelle tante difficoltà personali e familiari, qualcuno che, come il Buon Pastore, li guida perché spera in loro.   Cari fratelli e sorelle, carissimo Giuseppe, «Ti amo, Signore, mia forza»: non stancarti di ripetere queste parole! Ripetile nella gioia e nella Croce, nel quotidiano e nello straordinario. Soprattutto, ripetile nella preghiera perché è lì che penetreranno in te, come la pioggia e la neve penetrano nel terreno, anche quando sembra arido. Fa’ in modo che da queste parole e da questa preghiera dipenda la tua carità, la tua fede e la tua speranza; ma anche la tua castità, la tua obbedienza e la tua povertà. In una parola: la tua stessa vita sacerdotale. Lo chiedo al Signore per te, con l’intercessione di Maria, Madre della preghiera, di San Giuseppe, il cui nome ti identifica, di San Giovanni XXIII, il cui ministero ti ispira.  E lo chiedo assieme al dono di quella gioia nuova che, da oggi, nessuno potrà toglierti.         X Santo Marcianò


[1] Francesco, Discorso a Conclusione della III Assemblea Straordinaria del Sinodo dei Vescovi, 18 ottobre 2014