(23-5-2015) Raduno nazionale di Assoarma – Udine (Tempio Ossario): l’omelia di ieri dell’Arcivescovo nella Messa per i caduti nel Centenario della Grande Guerra

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«Quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».

Carissimi fratelli e sorelle, ascoltando queste parole di Gesù nel Vangelo (Gv 21,15-19), proviamo a immaginare gli uomini che oggi, con grande affetto, stima e gratitudine, noi ricordiamo in questo Sacrario, i caduti di uno dei più devastanti conflitti della storia, la prima Guerra Mondiale. Cento anni fa l’Italia entrava in guerra e tanti, certamente, erano gli stati d’animo della nostra gente, dei responsabili di governo, delle gerarchie militari, soprattutto dei combattenti che oggi commemoriamo.Possiamo immaginare che alcuni, nel loro entusiasmo giovanile o comunque nella ferma convinzione di voler servire la Patria, avessero scelto di arruolarsi e coinvolgersi in una guerra che, forse, ritenevano inevitabile. Tra di essi c’erano certo militari di professione, pronti e addestrati a intervenire in caso di guerra o di pericolo… Altri combattenti, tuttavia, furono forzatamente condotti dove non sarebbero mai andati; costretti a entrare nella mischia di un conflitto che non capivano, al quale non erano preparati, rispetto al quale – magari anche perché geograficamente lontani da questi luoghi -, avvertivano rifiuto ed estraneità.Sullo sfondo, immaginiamo il mondo di questi fratelli, in particolare i loro cari: spose e madri, che li avevano visti partire con angoscia ma non smettevano di attenderli con la tenacia propria dell’amore; figli, lacerati dalla separazione da padri che talora non avevano neppure ancora conosciuto; padri, fratelli e sorelle… un misto di legami che la guerra recide, disgrega, come fa con tutto! Immaginiamo, dunque, i tanti uomini che erano in queste zone: una moltitudine, immensa ma non smembrata.La guerra è uno tra gli eventi più drammatici che la storia possa raccontare e molti esseri umani, in guerra, si disumanizzano; perché la guerra vorrebbe distruggere tutto, prima fra tutti l’umanità, la dignità. Nella prima Lettura (At 25,13-21) abbiamo visto Paolo che viene accusato, non per dei crimini ma a motivo del proprio credo religioso, ed è costretto a difendersi. Quante ingiustizie alla radice della guerra, quante false accuse! Soprattutto, quante intolleranze di razza e religione! Noi ricordiamo oggi la prima Guerra Mondiale ma andiamo pure in avanti, pensando al conflitto successivo nonché alle situazioni storico-politiche dell’attuale scenario internazionale, e ci rendiamo conto di quali possano essere le ragioni di quella che Papa Francesco definisce una terza Guerra Mondiale «a pezzi». Sentiamo così ancor più bruciante il dramma dell’ingiustizia socio-economica, delle discriminazioni, dei fondamentalismi; vediamo come tutto questo arrivi ad attaccare e distruggere senza remore uomini, donne e bambini, luoghi ricchi d’arte e storia, l’ambiente e il creato…L’essere umano, purtroppo, è capace di tanto orrore; la guerra, come ha infatti ricordato Papa Francesco a Redipuglia, nasce «dall’impulso distorto del cuore»[1].Ma l’essere umano è anche capace di altro: è capace di contemplare, ritrovando nel cuore la melodia della benedizione, come canta oggi il Salmista (Sal 102 [103]); è capace di trascendere gli stessi orrori della guerra perché può uscire fuori da se stesso e dai propri egoismi. È, questa, una capacità che trasfigura e crea unione, trasformando una moltitudine anonima in «popolo». Se ci pensiamo bene, è per questa idea che molti italiani hanno accettato di combattere in guerra: perché si sentivano popolo e, come popolo, volevano ricomporsi, riunirsi. Un popolo con la sua storia, le sue tradizioni, i suoi legami che si ricostruiscono sempre, anche quando la guerra li ferisce e vorrebbe distruggerli. L’uomo non sa vivere senza legami, senza questi legami che fanno il popolo e fanno la Patria. Sì, perché Patria, cari amici, non è un concetto teorico o puramente geografico: la parola Patria, non lo dimentichiamo, contiene in sé la parola pater, padre.In quella guerra dolorosissima, che Benedetto XV definì «inutile strage», che ha mietuto innumerevoli vittime e nella quale, come in ogni guerra, tutti sono vittime, questo senso di Patria, questo senso di popolo, si è, per così dire, salvato dalla macerie ed è stato consegnato al futuro. L’uomo – e noi oggi – può accogliere questo dono e, grazie alla forza dei legami, può essere più forte della guerra, può essere costruttore di futuro. Ma l’uomo non può fare questo da solo, non ne avrebbe la forza e neppure, se ci pensiamo bene, la motivazione. L’uomo ha bisogno di imparare ancora, anche dalla guerra, la bellezza dell’essere popolo, rendendosi conto di come ogni guerra sia fratricida. E’ questa la lezione che i caduti ci consegnano: essi sono morti per noi, per il nostro popolo, per farci sentire popolo. Sono morti – con convinzione o a volte con paura – perché la guerra fosse definitivamente cancellata. E mentre qui riposano insieme tanti uomini che forse un giorno erano avversari, e i cui resti a volte sono ignoti, noi immaginiamo non una moltitudine anonima ma un popolo finalmente legato dai vincoli di quella fraternità universale che non scarta ma accoglie, non distrugge ma custodisce. Che tutti conosce perché tutti ama. Carissimi fratelli e sorelle, «Un altro ti condurrà dove tu non vuoi», dice Gesù.Chi mai, cento anni fa, poteva voler essere condotto in guerra? Chi mai, oggi, vorrebbe realmente fare la guerra?Ma come imparare a non fare la guerra se essa, in certo qual modo, sembra essere scritta nel cuore dell’uomo fin dai tempi di Caino?La risposta è in Gesù, il quale si accorge che la moltitudine anonima non solo è «popolo» ma «gregge»; è comunità che cerca una guida, cerca una strada per uscire fuori dalla logica della guerra, dalla logica dei conflitti, dello scarto, del predominio, del diritto calpestato, del fratello discriminato, dimenticato o cancellato.Sì, i nostri caduti ci ricordano che tutti abbiamo bisogno, ancora oggi, di essere guidati verso la pace!Gesù è la Pace, Gesù è la via che ci conduce alla pace; Gesù è il Pastore ed è Lui che continua ad affidare il Suo popolo, la Sua Chiesa, il mondo che Egli ama, ai pastori, come fece con Pietro: «Pasci le mie pecorelle».Permettetemi, in questo momento, di riservare un pensiero affettuoso e intenso a tutti i sacerdoti, in particolare ai cappellani militari, il cui ministero, proprio durante la prima Guerra Mondiale, fu meglio compreso nel suo significato e valore. Tanti, fra loro, sono caduti; alcuni, forse, non avrebbero voluto essere condotti in guerra. Ma tutti scelsero di pascere il gregge di Cristo, di stare accanto ai fratelli che combattevano per indicare loro, sempre e comunque – come ancora oggi fanno -, la via della pace possibile, via di dialogo, perdono, misericordia. Mi commuove pensare che, come Chiesa, saremo chiamati a iniziare il Giubileo della Misericordia a cento anni dall’inizio della prima Guerra Mondiale. Sì, cari amici, la Misericordia è un argine al male, dunque alla guerra: è il messaggio che vorrei respirassimo qui, in questo Sacrario, ricevendolo da coloro i quali, immersi nella Pace vera, ci ricordano come essa sia frutto di cuori che vincono l’impulso distorto accogliendo e donando Misericordia. Cuori che imparano a vincere davvero la guerra, rispondendo con prontezza e gratitudine alla domanda che Gesù ha fatto a Pietro e oggi pone a ciascuno di noi: «Mi ami tu?». Ci aiutino i nostri caduti a saper dire di sì, a credere sempre nell’amore, certi che così si è sempre vincitori veri, testimoni di pace, coraggiosi costruttori di civiltà. Questa è l’eredità che, chi ci ha preceduto, ci lascia. Ed è con questa certezza che mi piace contemplarli felici in cielo.E così sia!  X Santo Marcianò


[1] Cfr. Francesco, Omelia al Sacrario Militare di Redipuglia, 13 settembre 2014