(2-11-15) Omelia dell’Ordinario Militare nella S. Messa per la Commemorazione dei defunti, al Sacrario Militare del Verano

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E’ con l’immagine del banchetto, dunque della festa, che la Parola di Dio oggi ci accoglie. È il banchetto che Dio prepara, in cui Egli stesso si fa Servo; un banchetto che, secondo la profezia di Isaia nella prima Lettura (Is 25,6a.7-9), si svolge dopo che la morte è stata vinta per sempre, dopo che ogni lacrima è stata asciugata. È bellissima questa sottolineatura: “ogni” lacrima. La festa, la pace è il frutto delle tante lacrime di cui è intrisa la storia umana, è come l’altra faccia della medaglia che porta inciso il mistero più insondabile e drammatico con cui l’uomo debba confrontarsi, la morte.

E se la Chiesa commemora in un unico giorno quei defunti che ciascuno ricorda personalmente, è perché ci vuole far comprendere che la morte, come del resto la vita, è mistero che non si può affrontare da soli: abbiamo bisogno di Dio, abbiamo bisogno della comunità. Oggi siamo convocati a questo Banchetto Eucaristico come comunità, come Chiesa dell’Ordinariato Militare. Vi saluto tutti, ringraziando ciascuno – autorità civili e militari, famiglie… – per la vostra presenza e il vostro impegno. In particolare, ringrazio di cuore Lei, Signor Presidente della Repubblica: il suo “esserci”, oggi come in tutte le vicende della Nazione, ce la fa sentire vicino, fratello nel cammino e nella preghiera, e aiuta le Forze Armate e tutto il Paese a sentirsi famiglia, comunità. È proprio vero: «nel nostro Paese, come in tutta Europa, abbiamo bisogno di ripristinare il senso della comunità, per capire che si è se stessi se ci si fa carico degli altri»[1]: lei stesso lo ha sottolineato qualche giorno fa, dinanzi allo strazio dell’ennesima tragedia delle morti in mare di tanti nostri fratelli migranti: uomini, donne e un numero sempre più elevato di bambini. Assieme ai nostri defunti, ai militari caduti in servizio durante l’espletamento del loro dovere, in Italia e all’estero, in questa Celebrazione vogliamo ricordare anche loro, i morti a causa dell’ingiustizia, della violenza e delle tante guerre che ancora insanguinano l’umanità; tra essi, in particolare i profughi, gli stranieri che i nostri militari quotidianamente soccorrono, curano, spesso salvano dalla morte; sono fratelli dei quali, come comunità ecclesiale che è tra i militari, condividiamo la sorte, per i quali possiamo piangere perché ce ne facciamo carico.   Sa piangere solo chi sa farsi carico! È il messaggio del Vangelo (Mt 25,31-46): «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare… ero straniero e mi avete accolto…»… Ora, dunque, potete piangere per me! Sono queste le lacrime che Dio asciugherà dai nostri occhi: quelle versate dall’amore che si fa carico dell’altro, vincendo un’indifferenza la cui disumanità riecheggia ancora dal grido lanciato da Papa Francesco a Redipuglia un anno fa: «a me che importa?». Dobbiamo «passare dal “a me che importa”, al pianto»[2], egli supplicava. La comunità si costruisce pure nel pianto! E mentre c’è un pianto che divide, cioè un pianto frutto di invidia, odio, prevaricazione… c’è un pianto che unisce, che accomuna dinanzi al dolore, alla sofferenza, alla morte. Un pianto di chi impara a farsi carico: e farsi carico è più che intervenire, più che agire; significa, come dice Paolo nella seconda Lettura (Rm 8,14-23), «partecipare» alle sofferenze di Cristo, alle sofferenze dei fratelli. È il miracolo dell’amore, perché l’amore non chiede che questo: partecipare alle sofferenze dell’altro per alleviarle; partecipare alla morte per poter dare la vita.   Non lo dimentichiamo: saremo giudicati sull’amore! Il Vangelo di oggi non si riferisce solo al Giudizio Finale ma diventa “icona” per una società più giusta, più fraterna, veramente umana. Come scrive Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’, per costruire quella che Paolo VI chiamava la «civiltà dell’amore»[3] c’è bisogno dell’«amore civile, politico e sociale» che, a partire dalle «relazioni tra individui», pervada pure «le macro-relazioni, i rapporti sociali, economici, politici»[4]. Saremo giudicati sull’amore! Assieme a Gesù, ce lo gridano i fratelli affamati, stranieri, nudi, malati, carcerati… i fratelli e i bimbi morti in mare che oggi ci giudicano, giudicano una cultura, una civiltà, una Nazione, una Comunità internazionale. Un giudizio terribile forse, ma, allo stesso tempo, sempre aperto alla possibilità di quella «misericordia» cantata dal Salmista (Salmo 24 [25]), a cui il Giubileo ci chiamerà a spalancare i nostri cuori, in un cammino di autentica conversione.   Cari amici, sa piangere per i morti solo chi sa farsi carico dei vivi! Questo è vero a livello familiare, sociale, universale; è particolarmente vero per i militari i quali, lo ripeto spesso con ammirazione e gratitudine, «partecipano» in modo autentico alle sofferenze, alle difficoltà, ai problemi dei fratelli che sono chiamati a difendere e proteggere, condividendone la vita fino al dono della vita. Il dolore, la morte, hanno davvero una portata sociale; potremmo dire che, come la «partecipazione sociale» è alla base della società civile, la «partecipazione alle sofferenze» è alla base di una società veramente umana. Lo diceva Lei, Signore Presidente, qualche giorno fa, facendo riferimento alle sofferenze della sua cara moglie e invitando coloro che sono in buona salute a stare con i malati per comprendere il senso vero della vita e imparare a cercare ciò che è veramente essenziale, sapendo relativizzare l’inutile e il superfluo. E’ proprio vero, “solo chi soffre sa” (Eschilo). E Giovanni Paolo II: “vicino ad ogni uomo che soffre, dovrebbe esserci sempre un uomo che ama”, perché la peggiore sofferenza è non sapere amare (cfr. F. Dostoevskij). Ce lo ricorda la commemorazione dei defunti, ce lo insegna questa Eucaristia, nella quale portiamo in dono le tante lacrime versate dai fratelli di cui ci facciamo carico; le lacrime versate da noi, con loro e per loro; le lacrime versate per i defunti a noi cari e per quelli a cui il mondo è indifferente; le lacrime che ci uniscono e ci fanno comunità… Tutte le lacrime, ogni lacrima che Dio accoglie e trasforma già oggi, in questo Banchetto nel quale Gesù, con la Sua Croce e Risurrezione, «partecipa» alle nostre sofferenze, vince la morte per sempre e si fa, per noi e per tutti, Cibo di una Vita che non muore. E così sia!   X Santo Marcianò


[1] Sergio Mattarella, Discorso al Sermig, 29 ottobre 2015
[2] Francesco, Omelia al Sacrario Militare di Redipuglia, 13 settembre 2014
[3] Paolo VI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 1 gennaio 1977
[4] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’, n. 231