(02-11-2019) Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata stamane nella concelebrazione presieduta presso il Sacrario militare del cimitero del Verano in Roma, presenti il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Generale Enzo Vecciarelli, i vertici militari delle altre Forze Armate e i rappresentanti istituzionali.
Carissimi, la memoria dei nostri fratelli defunti, dei nostri caduti che qui oggi ricordiamo, ci inserisce in una relazione particolare con il tempo: lo fa anzitutto la seconda Lettura (Rm 8,14-23), in cui Paolo parla delle «sofferenze del tempo presente».
Paolo è un uomo che conosce la sofferenza: più volte egli è stato perseguitato, carcerato, scampato a pericoli indicibili; più volte ha visto la morte con gli occhi. Paolo conosce la sua sofferenza e conosce quella degli altri, soprattutto per averla causata, essendo stato egli stesso un persecutore; è un uomo che soffre, parla ai Romani che soffrono, e parla a noi, intercettando con sorprendente realismo «le sofferenze del tempo presente», dunque le nostre.
Sì, la sofferenza è sempre al presente! Al contempo, la sofferenza ci rende contemporanei a chi soffre.
È il mistero che viviamo oggi, ricordando i nostri defunti e i caduti, e sentendoci straordinariamente contemporanei alla sofferenza da essi vissuta nel passato. Una sofferenza sgorgata dal loro mettere la vita a servizio degli altri, delle tante sofferenze che, allora come oggi, attraversavano il mondo. Pensando ai nostri militari caduti in guerra, nelle missioni internazionali di sostegno alla pace, nello svolgimento del dovere, li vediamo attenti ai «gemiti» di cui parla la Parola di Dio. Sono i gemiti della creazione deturpata, delle violazioni della vita, della libertà e della legalità, contro le quali essi hanno combattuto. Sono i gemiti che continuano e assumono sfumature diverse nelle diverse fasi storiche, dinanzi alle crudeltà presenti contro le quali voi, uomini e donne delle Forze Armate e Forze dell’Ordine, continuate a combattere, spesso in condizioni di scarsa sicurezza: la violenza e l’odio, l’intolleranza e lo scarto, il terrorismo e la criminalità, gli abusi e la violazione della dignità umana, la corruzione individuale, sociale e politica….
I caduti che oggi piangiamo hanno dato la vita. E, anche se a volte nulla sembra risolto e abbiamo la tentazione di chiederci se non sia stato inutile il loro sacrificio passato, la Parola di Dio ci chiede di guardare al futuro. E il gemito di cui parla Paolo, in tal senso, non ha solo una connotazione negativa: è come un anelito, un desiderio, una speranza che vince sulla caducità, vale a dire sul fatto che tutto sembra vano, inutile, mortale… È vero, la morte ci fa paura e non ci sembra mai realtà accettabile, pur se abbiamo fede nell’eternità. Anzi, come dice in modo stupendo il Concilio, nell’uomo, proprio «il germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte»[1].
Ecco, cari amici, i nostri fratelli caduti sono insorti contro la morte, hanno affrontato la morte perché hanno creduto che non è eterna; che Dio, lo abbiamo ascoltato nella prima Lettura (Is 25,6a.7-9), «eliminerà la morte per sempre»; che Cristo Risorto donerà la Risurrezione.
È la speranza della «gloria futura» di cui parla Paolo. E anche Gesù, nel noto brano evangelico del “Giudizio Finale” (Mt 25,31-46), ci proietta al futuro, al mistero della vita eterna, «della gloria» in cui verrà e terrà accanto a Sé coloro che sono stati «giusti».
Oggi noi celebriamo la «gloria» che i nostri caduti hanno conseguito e verso la quale ci aprono la strada, affinché anche le nostre vite portino a frutto il germe dell’eternità custodito in noi.
Una gloria che non è semplicemente un premio futuro riservato ai migliori ma è il disegno di pace che Dio ha sul mondo, al quale siamo chiamati a collaborare nel presente, imparando dal ricordo passato dei caduti il coraggio e l’amore delle loro esistenze donate.
Sì, la pace che voi militari servite con dedizione, fino al dono della vita, è la gloria che i caduti insegnano e per la quale, con loro e per loro, rendiamo grazie, nella certezza che ogni gemito, ogni missione, ogni sacrificio è il miracolo dell’eternità dell’amore che ci rende contemporanei a coloro che soffrono e ci rende capaci di dare la vita per loro.
Santo Marcianò
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 18