Kenya – Lettera-testimonianza di un militare

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(24-06-2024) Buonasera mamma, è da molto che non ti scrivo, poiché la malinconia, mentre navigo, preferisco affrontarla così: non pensandoci. Spegnendo il cervello, facendomi cullare dalle onde (anche se a volte il mare è così forte da farti girare e rigirare) e cercando, seppur sapendo di sbagliare, di non sentire quanto sia “intenso” il profumo del mare.

Oggi però, è stato diverso, mi sono fermata a respirare. Ed era tanto tempo che non prendevo una tale “boccata di ossigeno”, di vita.

Ancora ho il cuore che mi scoppia e gli occhi gonfi pieni di lacrime, nonostante sia abituata per temperamento e professione, a trattenere tutte queste emozioni.

Stamane, dopo aver ormeggiato a Mombasa, ci siamo recati al Centro di accoglienza minori locale e non ti nascondo quanto io a lungo aspettassi questo momento.

Di buona lena, quindi, dopo esserci svegliati, ci siamo messi sul ponte di volo a preparare tutti quei pacchi… erano colmi di farina, legumi, pasta, salsa di pomodoro e viveri di ogni genere. Pacchi che non avrebbero cambiato la situazione, ma di certo donato una serenità e sorrisi che, per quanto li immaginassimo come effimeri, “ci bastavano”.

Perché se non puoi cambiare le cose, allora prova a migliorarle.

Alcuni, quelli di noi probabilmente dall’animo più sensibile, il giorno prima erano usciti dalla nave per andare ad acquistare anche dei semplici lecca-lecca, dei biscotti, dei giocattoli, poiché sapevamo che quelle piccole cose avrebbero rappresentato tanto.

Quando non hai nulla, quando si ha la percezione che ci manchi qualcosa, anche ricevere un “assaggio” ci fa sentire quasi come sazi.

Quindi, caricato il tutto, siamo saliti sull’autobus verso il centro. Era una mattinata veramente soleggiata; qua, mamma, c’è sempre il sole.

Giunti sul posto, saranno state le 10, abbiamo trovato una struttura in buone condizioni, se si pensa alle altre locali ed allo stato generale delle cose qua a Mombasa; sembrava, in tutta onestà, tutto molto freddo: alla nostra destra c’era un’altalena arrugginita e qualche gioco per bambini decadente, più avanti poi vi erano gli edifici ed un cortiletto. Dei bimbi non vi era l’ombra.

Poi ne è uscito uno: era bellissimo, di quelli che si vedono nelle pubblicità, con i jeans strappati sulle ginocchia; avrà avuto 5 anni e due occhi grandi, marron nocciola, in cui ci si poteva specchiare, tanto erano lucidi.

Ho pensato in quel momento a quegli specchi così decisivi che usò Archimede a Siracusa, gli ustori: In modo inaspettato quegli occhi furono capaci di riflettermi inesorabilmente addosso tutto quello che “reconditamente” “portavo dentro”, mi ri-ancorarono alla realtà e proprio su tutto questo, unitamente a quello che in contemporanea ero io a vedere, ritornai a pensare.

Quegli occhi riflettevano e mi fecero riflettere e bastò il seguente raggio di sole per farmi “bruciare”.

Di lì a poco di bambini, dalla struttura, ne uscirono altri: anzitutto c’era timidezza ed imbarazzo da parte nostra e loro, poi ci “sciogliemmo”; eravamo tutti “accrocchiati” da un lato e li guardavamo, cercando di capire per quale motivo così tanta tenerezza potesse essere sinonimo di sofferenza.

Poi “ci aprimmo”, guidati dai più temerari: una delle insegnanti portò una cassa bluetooth, era enorme, come quelle da discoteca; perciò prendemmo i nostri telefoni e quei bambini iniziammo a farli ballare, cantare, girare su loro stessi, a farli sorridere di gioia. Anche se in realtà, eravamo noi che stavamo prendendo quell’ossigeno, che stavamo vivendo.

Ci prendemmo tutti per mano, li prendemmo in braccio, presi da quelle note che ci entravano nelle orecchie; prendemmo anche un pallone e cominciammo anche a giocare unitamente a calcio, pallavolo, a canestro. Il tempo sembrava fermo, cristallizzato, tuttavia stava passando troppo velocemente ed io persi la cognizione del tempo.

Circa due ore dopo, solo per un istante, mi fermai: avevo corso e riso così tanto da sentirmi scoppiare i polmoni, ma probabilmente quella era semplicemente quella che definiamo… felicità in tutta la sua natura, capace di prenderti corpo e cuore. Decisi che non mi importava molto e come con l’amore che ci porta ad essere genuinamente incoscienti, continuai a correre.

Poi arrivò un altro bus “capitanato dal nostro Don Andrea”: si era procurato “l’infinito” per quei bambini; scaricammo sacchi di cemento, zanzariere ed attrezzature di varia natura.

Di lì a poco ci spostammo nella loro sala comune: alcuni di noi presero chiodi, trapani, stecche di legno e si misero a sistemare quelle zanzariere, altri si cimentarono nella cucina locale, dando una mano nella preparazione del pranzo, altri ancora, me inclusa, rimasero lì con i bambini a ridere, scherzare, abbracciarli e a ballare. Non riuscivamo a fare altro.

Poi arrivò il pranzo e la situazione si calmò: fu in quella circostanza che ebbi la possibilità di capire tutto il lavoro ed il pensiero che vi è dietro quella struttura e quell’associazione, nonché di conoscere il personale che vi lavora. Ho stretto, quasi naturalmente, amicizia con lo psicologo del posto; un ragazzo squisitissimo, di circa 20 anni, con una voglia di fare e vivere senza freno, nonostante la sua velata pacata schiettezza.

Le sue parole erano come un placebo. Delicate, rilassanti, ma decisive.

Vicino, nel mentre, il bimbo di inizio mattinata, Moses, si era addormentato fra le braccia di una ragazza. Decisi di lasciarmi andare un’altra volta, contrariamente a ciò che sono solita fare, perciò mi avvicinai, gli presi la testa e lo accarezzai dolcemente.

Fu lì che mi scesero le lacrime, cercando sbadatamente di trattenerle. Se si potesse descrivere quello che i luminari riconoscono come eustress, probabilmente farei riferimento a quella circostanza. Stranamente ero io in quel momento a sentirmi confortata e protetta, a sentirmi viva.

È stato uno dei gesti più belli che potessi fare, che mi ha fatto “sorridere il cuore”.

Si erano fatte le 15 e la giornata si accingeva a volgere al termine: ci riunimmo tutti e ci congedammo. Spendemmo sia noi, che i bambini, che le insegnanti dell’associazione, un sacco di parole, di cui, ora come ora, non ho memoria.

Tuttavia mi è rimasto impresso come ad un certo punto, d’improvviso, la responsabile, “Mama”, ci abbia chiesto se effettivamente, ai nostri occhi, quei bambini fossero felici.

Fu una domanda tagliente nella sua estrema facilità: sapevamo benissimo (o quantomeno provavamo ad immaginarlo) quanto quelle “anime” potessero aver sofferto e quanto vivessero nella privazione, ma nonostante il tutto, in loro vi era indubbiamente serenità ed appunto, felicità. Onestamente ve ne era molto più che in noi ed in quella giornata, quei bambini avevano deciso di condividerne “un pugnetto”.

Nonostante vivessero con poco, ci avevano fatto comprendere che “si sarebbe potuti stare meglio”; nel nostro piccolo, abbiamo cercato come ci dice il Don riprendendo le parole di Gesù “…c’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E la Gioia autentica l’ho toccata con mano…

Perché mamma, a volte, come ci ricorda ogni giorno il motto della nostra nave, per stare meglio e sorridere basta il coraggio di volerlo fare.

Lucia Ceriana