Chiesa S. Caterina a Magnanapoli, 30 giugno 2024
Caro don Sergio, la gioia per questa Celebrazione dei tuoi 40 anni di sacerdozio è la nostra gioia, è la gioia di questa Chiesa Ordinariato Militare, per la quale si spende il tuo ministero. La gioia di ritrovarci in tanti nel comune rendimento di grazie al Signore, per il tuo servizio ricco di competenza, saggezza, umiltà, portato avanti con un grande senso di comunione.
Una vocazione bellissima, nella quale il Signore ha condotto i passi della tua vita a servirLo, a camminare dietro Lui che si fa Servo, ma anche Fratello e Amico degli uomini, per portar loro la salvezza del Padre.
Ho detto: servo, fratello e amico. Mi piace pensarti così, nel tuo modo di essere e di annunciare il Vangelo tra i nostri militari, soprattutto attraverso i delicati compiti di questo ultimo tempo: i servizi di Vicario generale e Cappellano del Quirinale. Ma tutto e sempre cercando di crescere nella conformazione a Cristo, cuore del sacerdozio, che mi piace rileggere nella pagina evangelica che la Liturgia ci regala (Mc 5,21-43).
Gesù è in cammino; come spesso accade, il cammino lo porta ad attraversare il mare: «In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva»… inizia così il brano di Marco. E, se è vero che, nella tradizione biblica, il mare è icona del mondo del male, dell’abisso del cuore umano, è vero che il Signore non si stanca di entrarvi, di camminarvi dentro, di affrontarlo, di stare con noi nelle tempeste, fidandosi così tanto da «dormire sulla barca», come ci ricordava il Vangelo domenica scorsa (Mc 4, 35-41).
I due episodi biblici che abbiamo appena ascoltato sono immagine dei cuori che Gesù incontra.
Il primo è il capo della sinagoga, uomo con un ruolo istituzionale importante a livello religioso e sociale. È un capo, è un’autorità. E Gesù si relaziona con lui.
Lo fa certamente con il rispetto dovuto al ruolo; ma lo fa, dicevamo, incontrando il cuore. Quell’uomo, infatti, ha un nome, Giàiro; e il nome ci identifica direttamente, personalmente, superando lo stesso ruolo. Ma quell’uomo è soprattutto un padre, con il cuore così ferito dal dolore, dalla paura, dall’ansia, da gettarsi ai piedi di Gesù e supplicarLo con insistenza, ancora una volta ignorando il ruolo.
Da Cappellano militare, e in particolare per il tuo attuale servizio, anche tu, don Sergio, sei chiamato a relazionarti con uomini e donne a cui sono affidate grande autorità e responsabilità, per i quali lo stesso ruolo può rischiare, in certo senso, di sovrastare la persona, con la sua identità e le sue fatiche. Uomini e donne che spesso vengono avvicinati per ciò che fanno più che per ciò che sono o che, a volte, diventano essi stessi vittime del proprio ruolo, sacrificandovi valori, ideali, persino affetti familiari.
Ecco, dunque, la preziosità del tuo servizio: stare vicino a coloro i quali rivestono compiti di guida, nelle nostre Forze Armate e nelle nostre Istituzioni, facendoti, come Gesù, fratello e amico. Da una parte perché tu li sai chiamare per nome, ovvero ti mostri attento alla loro storia personale, alla loro vocazione personale, aiutandoli evangelicamente a maturare in essa, ad agire con coscienza e coerenza, a uscire da pure logiche materialiste o immanenti per ricondurre ogni cosa – successi, sconfitte, difficoltà – al senso ultimo della vita, contemplato nell’orizzonte terreno ed eterno. Dall’atra parte, sai intercettare i loro dolori, le suppliche nascoste nel cuore, gli affanni e le preoccupazioni familiari: un ministero di ascolto, essenziale per ogni sacerdote ma caratteristico della paternità da te esercitata, anche nei confronti di altri sacerdoti; lo richiede soprattutto il tuo compito di Vicario, per il quale sento di doverti ringraziare con grande e sincera stima. Una paternità che sai vivere con discrezione e autorevolezza, con la fermezza della decisione e la gentilezza del tratto, con affetto e discernimento nello spirito. E la paternità, testimoniata, diventa educativa per gli altri presbiteri e per i nostri militari, specie per chi eserciti l’autorità.
Nel secondo quadro evangelico, vediamo Gesù avvolto, stretto dalla folla, e toccato da una donna che perde sangue. L’episodio sembra interrompere la narrazione, sembra ritardare la guarigione della figlia di Giàiro, dal momento che Gesù si lascia rallentare, si lascia fermare, si lascia toccare.
Accanto al capo della sinagoga, autorevole, c’è «la folla» anonima, immagine peraltro ricorrente nel Vangelo di Marco. La folla è icona del popolo, della gente, del mondo; di coloro per i quali Gesù è venuto, ovvero di tutti. Perché Gesù è venuto per tutti ma, fra tutti – è interessante -, Egli distingue il «tocco» di ciascuno; in questo caso, di una donna.
Un quadro che dipinge ulteriormente il tuo sacerdozio. Oltre alle “autorità”, da accompagnare, c’è la folla che preme, ci sono i militari e le loro famiglie, c’è la gente di ogni tipo affidata alle tue cure pastorali… ci sono gli ultimi e i deboli, come erano considerate le donne al tempo di Gesù e come può esserlo una donna che perde sangue da dodici anni: forse segnata dalla malattia o dalla violenza; di certo additata ed emarginata, perché ritenuta impura.
Lei è nella schiera degli ultimi da non dimenticare, da proteggere da soprusi, ingiustizie, violenze; è tra i poveri da soccorrere, senza sottrarsi a un «tocco» che a volte sembra disturbarci e distoglierci da altre urgenze o preoccupazioni pastorali, persino dalla preghiera. È un tocco dal quale tu, caro don Sergio, non ti difendi, rispondendo con concretezza e con quella generosità – anche economica – che abita il tuo cuore di sacerdote, a misura del Cuore di Gesù Cristo; Egli, come scrive Paolo nella seconda Lettura (2Cor 8,7.9.13-15), «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà». In tutti i luoghi e i contesti che hai servito, la povertà generosa ti è stata compagna, ti ha reso un credibile ministro del Vangelo, è cresciuta con te e ti ha fatto crescere nella libertà, anche nella libertà delle relazioni e dell’amore.
E l’amore diventa non solo lo strumento ma anche il fine della guarigione, della salvezza portata da Cristo. È, se ci pensiamo bene, il punto di contatto tra le due icone evangeliche: l’amore che dona la vita!
Se da una parte l’emorroissa, isolata a motivo dell’impurità, non può vivere l’amore e sperimenta la sterilità del grembo, dall’altra la figlia di Giàiro muore a dodici anni, età in cui in genere la bambina diventa donna, cioè capace di un amore fecondo.
«Dio non ha creato la morte», dice la prima Lettura (Sap 1,13-15; 2,23-24). Ma quanti dolori, malattie, lutti, noi presbiteri dobbiamo consolare, imparando a piangere con chi piange, per testimoniare la speranza che «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura».
Questo meraviglioso canto del Libro della Sapienza porta l’eco della compassione ma pure di una ricchezza antropologica che, come sacerdoti, siamo chiamati a custodire e difendere dall’assalto di un “post umano” che, sempre più, cede alla minaccia del relativismo, del materialismo, dell’autoreferenzialità, dell’uso e abuso di intelligenze artificiali… un’antropologia bella, da custodire e trasmettere, in un serio impegno formativo e in una vera e propria dimensione contemplativa.
Tu, don Sergio, sei vicino all’uomo, a ogni uomo, nella sua verità e bellezza; sei animato dal rispetto che rende prossimi a tutti, soprattutto a chi soffre, e ci fa strumenti della speranza che viene da Dio.
«Un sacerdote deve avere un cuore abbastanza “allargato” da fare spazio al dolore del popolo che gli è affidato e, nello stesso tempo, come sentinella annunciare l’aurora della Grazia di Dio che si manifesta proprio in quel dolore», diceva qualche anno fa Papa Francesco ai formatori di presbiteri. Ed è in Dio che tutto questo si attinge, lo sai bene e lo sappiamo bene; nel suo Amore al quale abbiamo consegnato la vita, in un celibato bello, riempito di preghiera costante e intima. «Perché «il prete non è uno “scapolo” – continua il Papa – ma un buon pastore dal cuore sempre aperto»[1].
Don Sergio carissimo, «un buon pastore dal cuore sempre aperto»!
Voglio lasciarti con questa immagine, nella quale il tuo sacerdozio si specchia, diventando un esempio per tutti noi, e nella quale si specchia la fedeltà di Dio.
È Lui che ti ha aiutato a lasciare aperto il cuore in questi 40 anni di fatiche e di gioie, di lotte e di doni… di tanta, tantissima Grazia, irradiata nella tua continua preghiera e nei sacramenti, primo fra tutti l’Eucaristia, la cui Celebrazione non hai mai lasciato.
È Lui che, mentre oggi rinnovi il tuo «Sì», si impegna in una Fedeltà che non ti abbandonerà, perché il «sempre» non è solo ricordo del passato ma spalanca orizzonti futuri, per il bene di molti e il bene della nostra Chiesa, con le sue peculiarità pastorali.
È questa Chiesa, tua Madre e tua Sposa, che oggi ti dice grazie e gioisce con te e con tutte le persone care che ti fanno corona, qui e da lontano, in terra e dal Cielo, ascoltando l’invito esultante del Salmista (Salmo 29 [30]): «Cantate inni al Signore, o suoi fedeli, della sua santità celebrate il ricordo».
Nel ricordo del tuo sacerdozio, la santità di Dio sia la tuta santità, don Sergio.
Grazie! Auguri di cuore. E così sia.
Santo Marcianò
[1] Francesco, Discorso ai partecipanti al Simposio Per una teologia fondamentale del sacerdozio, Città del Vaticano, 17 febbraio 2022