Omelia alla S. Messa nella Commemorazione del Beato Rosario Livatino

07-11-2021

Canicattì (AG), 7 novembre 2021

 

Celebriamo l’Eucaristia nella memoria di un esempio luminoso di uomo di fede e di uomo di legge, nel luogo in cui egli nacque: Rosario Livatino, assassinato dalla “Stidda” 31 anni fa e proclamato Beato il 9 maggio scorso. Una Celebrazione, che mi commuove profondamente. Da lui, umile e roccioso a un tempo, desideriamo trarre un insegnamento profondo e una testimonianza preziosa di vita cristiana, tradotta in servizio al bene comune e alla città dell’uomo. Egli era un «giudice integerrimo, che non si è lasciato mai corrompere»[1], ha detto il Papa all’Angelus nel giorno della sua beatificazione. Con l’aiuto della Parola di Dio di questa domenica, vorrei definirlo così, un «profeta di integrità»!

Integrità significa anzitutto totalità.

Le Letture di oggi parlano di profezia, affidandone il senso a due volti di donne, due vedove; una categoria totalmente abietta nella cultura del tempo, dove vedovanza significava solitudine, emarginazione; ma due donne a servizio della profezia.

Nella prima Lettura (1Re 17,10-16) la vedova di Zarepta riconosce la profezia in Elia e fa quanto egli le dice di fare, nonostante la richiesta sia rischiosa; infatti, se ella si priverà del suo cibo già insufficiente, lei e il figlio moriranno prima. Sappiamo che ciò non avverrà; quella morte prevista si trasformerà in vita, perché quanto la vedova ha donato, ha offerto, non si consumerà e darà la vita a lei, al figlio e al profeta.

Il Vangelo (Mc 12,38-44) mostra un’altra vedova che getta nel tesoro del tempio gli ultimi spiccioli: «tutto quanto le rimane per vivere». Anch’ella, in un certo senso, è disponibile ad andare incontro alla morte, pur di non sottrarsi alla carità, alla totalità del dono.

Non si tratta soltanto di dare quello che si ha, poco o tanto che sia, ma di essere coinvolti totalmente, mettersi completamente in gioco. La misera offerta delle donne ha come caratteristica la totalità.

Gesù indica il valore profetico del gesto della vedova, contrapponendolo a quello degli scribi, dei ricchi; di coloro il cui operato non arriva in profondità, o addirittura nasconde una doppia vita. C’è in essi un’apparenza ineccepibile, a tratti forse attraente; ma tutto si ferma a livello di formalismo e superficialità. Da una parte, potremmo definirla la logica del “chi te lo fa fare”; dall’altra, c’è un sommerso più inquietante che – Gesù lo dice con chiarezza – li rende artefici di ingiustizia, «divoratori» dei beni altrui. È un termine fortissimo: indica la voracità e rapacità di chi non si accontenta e, al contempo, prospetta l’atteggiamento occulto di chi sottrae agli altri.

Gli scribi, i ricchi, gli esibizionisti del tempio sono dunque il volto della corruzione, acquisita lentamente, concedendosi all’inizio solo piccole eccezioni rispetto alla legalità – un favore, una mancia, una tangente -, e che poi trasforma in veri e propri divoratori. La corruzione consuma lentamente e si rende evidente quando ha ormai divorato chi la pratichi!

Rosario Livatino ha lottato contro una tale corruzione, anche riguardante la giustizia. Non lo ha fatto con armi, proclami, dichiarazioni ridondanti ma con la totalità di una vita posta a servizio della giustizia.

In un discorso di commemorazione funebre di un collega, parlando del lavoro del giudice diceva: «Vi sono tante forme di affrontarlo: vi è quella distaccata e fredda di chi vede nelle tavole processuali solo un informe mucchio di carte che bisogna semplicemente ordinare secondo certe regole e quella di chi scorge in esse invece i drammi umani che vi si celano e che è consapevole di quanto una decisione potrà lenirli o esasperarli; v’è quella di colui che chiudendo la porta del proprio ufficio alla fine della giornata di lavoro lascia dentro di esso tutti i problemi che nel suo corso vi ha incontrato e ritrova nel privato una parentesi di sollievo e quella di colui che invece si compenetra talmente in quei problemi che li soffre fino al punto da farli propri e portarli con sé ovunque viva». E concludeva: è la «stessa differenza – sottile e abissale a un tempo – che corre tra l’essere semplicemente operatori del diritto e essere Operatori di Giustizia»[2].

Integrità è poi fedeltà. Fedeltà alla giustizia, che il Salmo 145 (146) attribuisce a Dio: «Il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi…».

È bellissimo: la fedeltà di Dio è la sua giustizia! E Livatino desidera essere strumento di giustizia per coloro che sono oppressi dal giogo della criminalità organizzata: le persone e i luoghi  meravigliosi della Sicilia. Egli è fedele a Dio, alla sua gente, alla famiglia e alla terra che lo ha educato ai valori autentici della cultura cristiana, da lui incarnati e superati. Voi – genitori, educatori, sacerdoti – potreste affermarlo con stupore: non è raro che i figli, per così dire, superino i padri nella fede ricevuta e che le buone radici diano, nel tempo, frutti più rigogliosi…

Con questa fedeltà cresce la Chiesa. E la fedeltà, non lo dimentichiamo, inizia dalla coerenza nel poco.

La vedova non offre per mettersi in mostra, ma non ha vergogna di essere vista, anche se può significare essere esposta al ridicolo o addirittura al vilipendio. Così, il giudice Livatino non ha fatto scelte latrici di fama, capaci di farlo balzare agli onori della cronaca o avanzare in carriera; ma, come la vedova, non ha avuto paura di essere visto, anche se sapeva che, agli occhi sbagliati, ciò poteva costituire un pericolo.

Nessuno conosceva il livello di pericolosità del suo operato. Certo, era noto come egli fosse ineccepibile, intransigente, trasparente, al punto, ad esempio, da evitare di incrociare il boss vicino di casa, per non peccare contro la giustizia né contro la carità. Ma forse non si pensava a un eroismo che lo portasse a spingersi così avanti, incurante del rischio: non tanto con un gesto eroico, ma nel servizio quotidiano che lo ha consumato e lo ha reso, come ebbe a dire Giovanni Paolo II alla Valle dei Templi, «martire della giustizia e indirettamente della fede»[3]. La sua fede è fedeltà alla giustizia, via per «trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto – spiega ancora Livatino -, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata»[4].

Integrità, infine, è l’umiltà necessaria all’amore.

La profezia di Rosario è stata umile e schiva ma consapevole del grande bene che c’era in gioco. E l’umiltà autentica si fonda su una tale radice, nella certezza che ciò per cui siamo chiamati a vivere, lavorare, servire, è sempre “più grande” e val bene l’«offerta di sé», fino al «sacrificio di se stesso», come dice la seconda Lettura (Eb 9,24-28).

È l’umiltà di Gesù, è l’umiltà stessa di Dio, che lo porta a farsi uomo, a mettersi nei panni dell’uomo e morire per amore. E Rosario l’ha imitata. Egli riteneva che l’umiltà di un magistrato da una parte gli impedisse di giudicare gli altri dall’alto, riconoscendo le proprie debolezze e usando così comprensione; dall’altra, che ponesse chi possiede «questa rara virtù… ben al di sopra di qualunque interlocutore»[5].

Rosario Livatino è stato beatificato, “posto in alto”, tanto che voi avete sentito il bisogno di inginocchiarvi alla sua tomba, ai luoghi del suo agguato come a quelli della sua vita semplice ma profetica.

Sub tutela Dei! Ci aiuti il suo motto a sentirci sotto lo sguardo di Dio, come la vedova del Vangelo fu sotto lo sguardo di Gesù, amorevole e misericordioso ma pure giusto, perché colmo di amore verso i più poveri. Quelli per i quali, in fondo, Rosario ha sacrificato se stesso, in un martirio che lo ha reso profeta di integrità, con la totalità di una vita offerta nella fedeltà alla giustizia e fino a un’umile morte d’amore.

Santo Marcianò

[1] Francesco, Angelus, Piazza San Pietro, domenica 9 maggio 2021

[2] Rosario Livatino, Discorso ai funerali di Elio Cucchiara, sostituto procuratore ad Agrigento, 12 settembre 1983

[3] Giovanni Paolo II, Messa ad Agrigento, 9 maggio 1993

[4] Rosario Livatino, Relazione Fede e giustizia, Canicattì, 30 aprile 1986

[5] Rosario Livatino, Discorso ai funerali di Elio Cucchiara, sostituto procuratore ad Agrigento, 12 settembre 1983