Carissimi, siamo entrati nel vivo del nostro corso di aggiornamento, che rappresenta anche – per dirla con l’Enciclica di Francesco – un’occasione per «ritornare al cuore»[1].
Da una parte, ciò significa poter «cogliere la realtà» conoscendola «meglio e più pienamente». Come rapportarsi in altro modo, ad esempio, alla tragedia degli abusi sui minori e le persone vulnerabili, perpetrati persino dentro la Chiesa, di cui ieri abbiamo toccato l’orrore, nello stesso mondo dell’intelligenza artificiale? Una conoscenza da farsi con il nostro cuore, con «l’amore di cui quel cuore è capace»[2]; una conoscenza, aggiungerei, che deve ferire il cuore. E mi sembra sia questa la conoscenza tipica del pastore, perché è la conoscenza a misura di Cristo, Buon Pastore.
Dall’altra parte, tornare al cuore significa prendere coscienza «che abbiamo un cuore, che il nostro cuore coesiste con gli altri cuori che lo aiutano ad essere un “tu”»[3], dice il Papa. E l’esperienza comunionale del nostro Convegno va nella direzione di crescere come presbiterio sentendoci ciascuno il “tu” dell’altro, nella relazione vitale all’essere umano e vitale alla Chiesa.
La Lettera agli Efesini (Ef 5,21-33) presenta il Mistero della Chiesa proprio in un’intima chiave relazionale: il suo “Tu”, potremmo dire, dinanzi al “Tu” di Cristo. Il “Tu sponsale” nel quale si rilegge la Storia della Salvezza in linea personale e comunitaria. Si rilegge come storia d’amore. Amore che è per noi, soprattutto per noi presbiteri, non soltanto il modello da cui imparare ma la stessa sorgente a cui attingere: per amare e per amare la Chiesa!
Come gli esegeti spiegano, le comparazioni usate da Paolo – «come… così» (òs… oùthos) – non hanno solo valore di somiglianza ma, ancor più di causalità. Poiché Cristo ha amato la Chiesa, l’essere umano può amare in modo oblativo, attingendo a quello stesso amore. E se ciò è fondamentale per l’amore coniugale in senso stretto, non smette di essere valido per quell’amore da cui noi presbiteri siamo afferrati, che trova espressione anche nel celibato sacerdotale. Ma questo amore è, al contempo, paradigma e forza della particolare «sottomissione» vicendevole cui Paolo esorta tutti. Non certo in un atteggiamento coercitivo ma nel mistero – il «grande mistero», potremmo dire – di quella libertà che trova la sua ragione e realizzazione nel dono di sé. E’ l’amore, il dono di noi stessi che ci rende liberi.
Di libertà del dono totale di sé, credo ci parli con eloquenza straordinaria un evento di cui abbiamo il privilegio di celebrare assieme, qui ad Assisi, l’ottavo Centenario: le Stimmate donate da Gesù a San Francesco, paradosso del suo amore di “alter Christus”. Nella narrazione del Celano, durante la visione a La Verna, Francesco avverte stati d’animo contrastanti: si sente «ripieno di una ammirazione infinita», è «invaso da una viva gioia e sovrabbondante allegrezza» e «contemporaneamente atterrito dal vederlo conflitto in croce nell’acerbo dolore della passione». Non capisce il senso di quanto accade, si agita, poi si ritrova a vivere nella propria carne quelle stesse ferite che ha visto con gli occhi e sentito nel cuore.
È il mistero grande dell’amore. Non semplicemente un amore simile ma “lo stesso amore”, il “medesimo amore” con cui Cristo ama la Chiesa, per il quale vale la pena di vivere e dare la propria vita; vale la pena di «sottomettersi». Nella libertà del dono!
Un amore concreto, che è carne e sangue ma è anche – Francesco lo dice con convinzione – «viva gioia e sovrabbondante allegrezza». In questo amore mi piace rileggere il senso della gioia che, come Chiesa, ci apprestiamo a celebrare nel Giubileo, che ci vuole “Pellegrini di Speranza”, pur tra guerre, violenze e i tanti drammi dell’umanità. «La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù trafitto sulla croce»[4], scrive il Papa nella Bolla di Indizione del Giubileo. E il Vangelo (Lc 13,18-21) ci fa riscoprire «una virtù strettamente imparentata con la speranza: la pazienza.»[5].
Un seme piccolissimo, il granello di senapa, diventa un albero grande. Ma perché ciò accada è necessaria la paziente attesa del seminatore, che getta questo seme nei solchi della storia e starà lì a guardare, a scrutare, ad accorgersi dei primi germogli, continuando pazientemente la sua opera di coltivazione e cura, anche quando tutto sembri arido e sterile. Egli sa che ci vuole il tempo necessario, dunque la necessaria pazienza. E la pazienza, d’altra parte, è necessaria al seme; è il patire del seme che, nella sua enorme potenzialità, deve sperimentare la trasformazione della morte, per fiorire e dare vita. “Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (Gv 12,24).
Stiamo riflettendo sull’Intelligenza artificiale e ci ritroviamo a considerare come «nell’epoca di internet, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti; osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”»[6].
Nel Cantico delle creature, possiamo ritrovare un altro cardine della speranza: la gioia della fraternità. Perché la speranza si deve incarnare in «gesti e parole d’amore»: i «gesti che riflettono il cuore»[7], li definisce la Dilexit Nos. Del resto, il Giubileo storicamente prevede gesti concreti: la liberazione degli schiavi, il condono del debito…
E guardando al Giubileo vogliamo ricordare, nella nostra Celebrazione, il Centenario dell’istituzione dell’Ordinariato Militare, ricorrenza per la quale gioire e rendere grazie. Rispetto a 100 anni fa, sono cambiate le circostanze, le persone… ma si conferma la necessità di questo servizio di sostegno spirituale, di formazione umana, di educazione delle coscienze dei militari i quali, dinanzi a nuove sfide, hanno certamente bisogno di speranza ma devono capire di essere essi stessi testimoni e strumenti di speranza.
Come non pensare, ad esempio, al ruolo chiave giocato dai militari italiani, grazie a una formazione che li educa a essere contrari alla guerra, amanti della pace, tessitori di dialogo, servitori della vita. E qui è spesso decisiva la nostra vicinanza e il nostro accompagnamento di pastori, specie per i giovani.
Cari confratelli, anche le ricorrenze del Giubileo e del Centenario ci aiutano a ritornare al cuore della nostra vocazione di Chiesa tra i militari, chiamata a rispondere all’invito di Papa Francesco che, nella Bolla di Indizione del Giubileo, vede il «bisogno di speranza» di «coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani». E grida: «Con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!»[8].
Grazie, cari fratelli, perché di questo bisogno voi vi prendete cura. Fatelo sempre più, ritornando al cuore del vostro sacerdozio che, nel Cuore di Cristo, può parlare al cuore dei giovani e, così, al cuore del mondo, di oggi e di domani. Il Signore ci aiuti.
Santo Marcianò
Ef 5,21-33; Dal Sal 127 (128); Lc 13,18-21
[1] Cfr. Francesco, Lettera Enciclica Dilexit nos, 9 – 16
[2] Dilexit nos, 16
[3] Dilexit nos, 14
[4] Francesco, Spes non confundit, Bolla di Indizione del Giubileo del 2025, n.3
[5] Ibidem
[6] Ibidem
[7]Dilexit nos, 32 – 38
[8]Spes non confundit, n. 12