Omelia dell’Arcivescovo nella Messa in ricordo delle vittime nelle missioni di pace

12-11-2017
 Giornata di ricordo delle vittime nelle missioni internazionali di sostegno alla pace
S. Maria in Ara Coeli, 12 novembre 2017

  «Non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza».   Carissimi fratelli e sorelle, Con stupore accogliamo, oggi, la Parola di Dio, a cominciare dalla seconda Lettura (1 Ts 4, 13-18). Stupore perché ci accorgiamo che interpreta nel profondo i sentimenti del cuore. Questa Parola è Vivente, è Vita; perché il nostro “è” il Dio della Vita; è un Dio che “è Vita” in se stesso. E, proprio perché è Vita, ci vuole spiegare qualcosa della realtà che ci fa più paura e con la quale voi, carissimi familiari, colleghi e amici dei caduti nelle Missioni internazionali di sostegno alla pace, vi siete scontrati in modo brusco, violento, dolorosissimo: la morte. Evdokimov scriveva: “L’uomo è ciò che fa della sua morte”. E questo vale anche per Dio. Dio è Dio se della sua morte ne fa un dono di vita per tutti. E’ questo il nostro Dio, e quando il Dio della Vita entra nell’esperienza della morte, lo fa non con parole vuote, non pronunciando un discorso dall’alto del privilegio di un’immortalità irraggiungibile. Lo fa pronunciando la Sua Parola Viva, il Cristo: lo fa, cioè, da Uomo, da Crocifisso straziato dal dolore, ucciso per entrare nella morte dell’uomo; e lo fa da Risorto, da Vincitore della morte, che tutti ha trascinato nella Sua immortalità, nella Vita che non muore. Gesù ha condiviso la nostra morte, per condividere con noi la Sua immortalità! Ha condiviso la nostra sofferenza, cioè la lotta che la morte provoca, per offrirci quel dono meraviglioso di cui parla Paolo: la speranza!   Sì, dinanzi alla morte – all’esperienza della morte e alla paura della morte – la speranza nasce dalla lotta; la speranza, in un certo senso, è forza di questa lotta. «Morte e vita si sono scontrate in un prodigioso duello», dice la Sequenza Pasquale. Ed è proprio così: c’è un duello, una battaglia, una lotta appunto; lotta che sentiamo viva in noi, così come sentiamo vivo il dolore per la perdita dei nostri cari, che siano passati pochi giorni o molti anni; ci sentiamo combattuti. Anche Gesù ha combattuto la stessa battaglia. «Con il suo comportamento – spiega Papa Francesco nelle sue Catechesi sulla speranza -, ci autorizza a sentirci addolorati quando una persona cara se ne va». Ma, donando la vita, ci ha ridato la speranza; infatti, «la speranza cristiana attinge da questo atteggiamento che Gesù assume contro la morte umana: se essa è presente nella creazione, essa è però uno sfregio che deturpa il disegno di amore di Dio, e il Salvatore vuole guarircene»[1]. La morte è uno sfregio, una ferita impressa all’uomo creato da Dio; essa si scaglia contro la vita, contro il seme di eternità che portiamo in noi. Non possiamo accettarla, la morte; o, almeno, non senza lotta. Paolo vuole aiutarci a vincere la tristezza di una rassegnazione passiva, vuole introdurci nella lotta contro la morte, ma con la speranza che il Salvatore ne guarisce la ferita. La speranza vince sulla tristezza. Trilussa scriveva: “Chi ha perso tutto, ancora cià abbastanza, se je rimane un filo de speranza”.   Da una parte c’è la speranza «riguardo quelli che sono morti», riguardo la loro sorte, riguardo l’eternità che essi sperimentano, che si incrocia con il nostro anelito di eternità. Pensiamoci: proprio quella parte di noi che si ribella alla morte, proprio quella, è il motivo per il quale noi possiamo credere all’eternità: se non accettiamo la morte è perché siamo fatti di eterno. La vita eterna non è semplicemente qualcosa che viene “dopo” e può esserci o non esserci: è, già ora, vita, che si manifesta nel nostro operare per la vita e non per la morte, ma rimane come velata, invisibile. Dopo la morte, questa vita si sperimenta in pienezza. Mi piace pensarla, con il Salmo 62, come premio della ricerca durata tutta una vita: «O Dio, tu sei il mio Dio, di te ha sete l’anima mia… esulto di gioia all’ombra delle tue ali». La pienezza della vita eterna fuga le ombre del dolore, del peccato, della morte; vince la lotta fra tristezza e speranza e ci pone all’ombra delle ali di Dio, dove la speranza non ci servirà più. Oggi, però, sappiamo che sono lì i nostri cari: ecco la speranza!  E sono lì perché li ha condotti la speranza, la speranza con cui hanno operato.   Ecco, dunque, la seconda sfumatura: la speranza ha animato la vita di questi caduti, fino alla morte. Essi sono morti, potremmo dire, perché hanno sperato, perché la speranza li ha portati a lavorare senza sosta per un futuro migliore: a liberare i poveri, venire incontro agli oppressi, operare per la pace… giungendo a quelle periferie del pianeta nelle quali gli ultimi vengono ancor più dimenticati. Hanno sperato perché hanno lottato. Ma hanno anche lottato perché hanno sperato. Diceva Mazzolari: “la speranza vede la spiga, quando i miei occhi di carne non vedono che il seme che marcisce”. La speranza, che nella tradizione della Chiesa è una virtù teologale, è, in fondo, una virtù sociale e si collega all’impegno per un mondo migliore. In questo senso, si capisce la bellissima immagine proposta da un poeta e teologo come Péguy: la speranza, sorella più piccola della fede e della carità, ma capace di condurre per mano entrambe queste virtù. Cari amici, è la speranza che ha mosso nei vostri cari il coraggio della fede e la carità delle azioni. È la speranza che li ha sostenuti, permettendo loro, anche dinanzi a risultati che magari tardavano a venire, di attendere vigilanti, come le vergini del Vangelo di oggi (Mt 25,1-13). Esse si addormentano solo dopo aver preso con sé l’olio della lampada, come fosse la speranza che, nel buio, accende la luce. Quanto buio, concreto, i nostri amici caduti avranno dovuto sperimentare, nella lontananza da casa e dagli affetti, nell’inserimento in contesti estranei, nella solitudine, talora nelle incomprensioni istituzionali… soprattutto, nella violenza e nella guerra. Ma, in questo buio, hanno sperato e vegliato, non si sono arresi e sono stati costruttori di pace, sacrificando anche la propria pace, le proprie comodità. «Chi reca speranza al mondo non è mai una persona remissiva. … Non c’è costruttore di pace che alla fine dei conti non abbia compromesso la sua pace personale, assumendo i problemi degli altri – dice ancora Papa Francesco -. La persona remissiva, non è un costruttore di pace ma è un pigro, uno che vuole stare comodo. Mentre il cristiano è costruttore di pace quando rischia, quando ha il coraggio di rischiare per portare il bene, il bene che Gesù ci ha donato, ci ha dato come un tesoro»[2].   Cari amici, hanno rischiato, i nostri fratelli, e sapevano di farlo. Sapevano di correre il rischio della vita assumendo i problemi degli altri, per difendere la loro vita come tesoro. Hanno voluto correre il rischio della speranza, il rischio della pace; per questo hanno vegliato, come le vergini sagge; le vergini che, con le parole della prima Lettura di oggi, potremmo definire «sapienti». Questa sapienza vogliamo invocare noi, consapevoli che resta in noi come dono, come eredità che i nostri caduti ci hanno lasciato e tutti li accomuna: la sapienza che si fa speranza di un mondo nuovo. Molti di voi hanno reso il dono della speranza operoso, fondando opere, associazioni, altri onorando la memoria, come facciamo oggi, in una Liturgia Eucaristica che vorrei definire non solo celebrazione anniversaria ma professione di speranza! La speranza che ha animato anche le vergini del Vangelo: esse, se ci pensiamo bene, hanno tenuto l’olio per poter incontrare lo sposo e amarlo. La loro speranza, come la nostra, non è un sentimento teorico ma ha un nome e un volto; quello di Cristo, nostra speranza. Per questa speranza i vostri cari, i nostri caduti, hanno vissuto, rischiato, amato, lottato. A loro, in conclusione, mi piace rivolgermi con le stesse parole di Papa Francesco, chiedendo a Dio che, come direbbe Paolo, siano di «conforto» anche a voi: «Non pensare mai che la lotta che conduci quaggiù sia del tutto inutile. Alla fine dell’esistenza non ci aspetta il naufragio: in noi palpita un seme di assoluto. Dio non delude: se ha posto una speranza nei nostri cuori, non la vuole stroncare con continue frustrazioni. Tutto nasce per fiorire in un’eterna primavera. Anche Dio ci ha fatto per fiorire. Ricordo quel dialogo, quando la quercia ha chiesto al mandorlo: “Parlami di Dio”. E il mandorlo fiorì»[3]. Grazie, cari amici caduti, per avere, con il sacrificio della vostra vita, fatto fiorire in molte vite la speranza. E così sia! X Santo Marcianò


[1] Francesco, Udienza Generale, Roma 18 ottobre 2017
[2] Francesco, Udienza Generale, Roma 11 ottobre 2017
[3] Francesco, Udienza Generale, Roma 20 settembre 2017