Roma, Cappella San Francesco Borgia, Curia Generale della Compagnia di Gesù, 26 ottobre 2015 Dio educa alla libertà, Dio libera! È questo il messaggio che, in sintesi, possiamo trarre dalla Parola con la quale il Signore ci accompagna in questa giornata, quasi accogliendoci qui a Roma. La libertà, dunque. Essenza preziosa dell’umano, dono che la stessa mano del Creatore ha immesso nella persona, creandola a Sua immagine; ma anche conquista, mistero da penetrare e declinare nelle situazioni concrete della vita: riconoscendola come diritto, rispettandola come dovere in sé e negli altri, identificandone e sanandone le violazioni, talora tremende, nella storia umana. Come Chiesa che è tra i militari sentiamo che il mistero della libertà ci è particolarmente affidato, in tutta la sua ricchezza come pure nelle sue possibili contraddizioni. Da una parte, infatti, il mondo militare potrebbe apparire come sinonimo di riduzione della libertà: la disciplina, la gerarchia, la rigidità del senso di comando e del dovere di obbedienza… D’altra parte, il compito dei militari in realtà trova la sua ragion d’essere proprio nella libertà: essi sono «a servizio della sicurezza e della libertà dei popoli»[1], dice letteralmente la Gaudium et Spes. Ed è proprio così. C’è una libertà da difendere, da servire, da restituire; e c’è una libertà dalla quale e alla quale lasciarsi educare. Questo fa Gesù nel Vangelo di oggi (Lc 13, 10-17), attraverso due dinamiche che, se ben esaminate, sembrano suggerire provvidenzialmente una direzione alle tematiche che svilupperemo nell’incontro di questi giorni. Il miracolo che Gesù compie, risanare una donna, avviene in giorno di sabato, la cui violazione era ed è gravissima per gli ebrei. Si potrebbe qui leggere il tema del rapporto tra libertà e legge e, al suo interno, inquadrare tutto il tema del “diritto internazionale”, su cui rifletteremo domani. Per noi, per voi cappellani militari, l’insegnamento di Gesù al riguardo è prezioso elemento di discernimento. Anzitutto per sostenere i militari, per i quali il ricorso al diritto internazionale regola la presenza e i compiti nelle zone di conflitto, a protezione della libertà e della stessa vita della popolazione. Allo stesso tempo, per educarli a operare, come Gesù spinge a fare, un serio discernimento tra leggi giuste e leggi inique, a lottare con la propria missione contro leggi irrispettose dell’uomo, della sua dignità, della sua libertà, della sua stessa vita. L’altra dinamica che Gesù mostra si inquadra proprio nel rapporto tra libertà e vita: Egli viola il giorno di sabato per liberare la donna dall’infermità. Ciò richiama il tema di oggi, la “protezione delle categorie più deboli”. Certo, Gesù non incita in partenza alla disobbedienza civile, tantomeno mette in discussione la legge morale naturale a cui, in realtà, ogni legislazione dovrebbe ispirarsi. Egli è venuto non ad «abolire» ma a «compiere» la legge e tale compimento è, al contempo, un presupposto. Si tratta, cioè, di cogliere quel “prima” e quell’”oltre” che la legge deve servire: l’uomo, la cui esistenza e dignità è la cifra della libertà; una libertà, cioè, sempre a servizio della vita e non in modo teorico. Davanti a Gesù, c’è una donna prigioniera di un male, una persona umana concreta da liberare e restituire alla vita: questo crea l’urgenza. È l’urgenza della carità, che talora deve superare la legge e, sempre, deve completare la giustizia. «L’amore sociale è la chiave di un autentico sviluppo», scrive il Papa nell’Enciclica Laudato si’, citando il Compendio di Dottrina Sociale della Chiesa quando afferma che «per rendere la società più umana, più degna della persona, occorre rivalutare l’amore nella vita sociale – a livello politico, economico, culturale – facendone la norma costante e suprema dell’agire»[2]. Gesù, pertanto, offre il criterio per riflettere sul nostro ministero a servizio del mondo militare affinché, sostenuto dal diritto internazionale, esso sia veramente impegnato nella protezione della categorie più deboli. Un esempio concreto, che porto nel cuore con viva preoccupazione, è il dramma dei migranti, dei profughi, per i quali i nostri militari costituiscono il primo soccorso e, spesso, l’unica speranza di sopravvivenza. Il loro non è un conflitto armato in senso letterale, anche se è conseguenza di grandi conflitti; forse potremmo classificarlo nella categoria di quelli che il nostro Convegno chiama i «nuovi conflitti», in quanto è dramma che, ormai, sta facendo più vittime di una guerra mondiale e che vede leggi internazionali ancora poco adeguate, staccate dalla vita e dall’urgenza della carità. I militari italiani hanno fatto propria la scelta di offrire soccorso a costoro, sempre e incondizionatamente; ma sappiamo che non per tutti è così e credo che noi, Chiesa, dovremmo con forza educare e sostenere i nostri militari a porsi a servizio della salvezza della vita umana prima di tutto, anche qualora le leggi dei diversi Paesi in cui operano siano, al riguardo, poco chiare o poco applicate. Gesù prima libera la donna, non la lascia soffrire o morire; anzi, potremmo dire, il suo gesto di liberazione diventa un criterio per rileggere la legge con occhi nuovi. È il criterio del vero discernimento ed è, per noi, lo spalancarsi di una grande prospettiva di educazione e di evangelizzazione; utilizzando i temi della giornata di oggi, una prospettiva di «protezione» e di «prevenzione» nei confronti delle violazioni della libertà. La chiave di questa prevenzione che libera ci viene offerta dalla prima Lettura (Rm 8,12-17): «voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi», grida Paolo. Vorremmo gridarlo anche noi a quelle categorie più fragili che siamo chiamati a proteggere, come pure ai potenti della terra, ai tanti operatori del terrore che utilizzano la paura come via di schiavitù. Soprattutto vorremmo gridarlo ai militari perché siano essi a gridarlo a questi fratelli, affinché ogni essere umano percepisca la propria dignità unica e inviolabile, quali che siano le proprie convinzioni culturali o religiose. Vorremmo dir loro che sono «figli di Dio», che sono nostri figli; questo è il senso del sacerdozio e a questo vogliono rispondere le riflessioni del Congresso. Paolo sintetizza in una semplice indicazione il modo con cui far questo: «partecipare alle sofferenze di Cristo». Sì, partecipare, cioè essere presenti, condividere. I militari sono presenti, nella quotidianità della difesa, nei luoghi dei conflitti e delle violazioni della libertà. Vivono la vita del popolo che servono, che difendono, che promuovono. Non proteggono dall’alto, dall’esterno. Anche la Chiesa ha fatto questa scelta ispirata, istituendo gli Ordinariati Militari e operando soprattutto attraverso il vostro ministero, carissimi cappellani militari. Voi siete pastori, padri, in una Chiesa che “c’è”, che «partecipa» alle sofferenze dei militari e, con loro, alle sofferenze del mondo. In voi è ancora Gesù che, come fece quel giorno, protegge e libera le categorie più deboli che il nostro Programma elenca: donne, bambini, rifugiati… e le persone private della propria libertà. Il Signore ci conceda di essere presbiteri che Lo aiutano a liberare così, restituendo dignità e vita, e diventando padri per tutti i militari e, con loro, per molti piccoli del mondo. E così sia! X Santo Marcianò Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia
Omelia dell’Ordinario Militare alla S. Messa di apertura del IV Corso di formazione dei Cappellani Militari al Diritto Internazionale umanitario
26-10-2015
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, 79
[2] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’, 231; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 582