Omelia in occasione delle esequie del Mar. CC. Silvio Mirarchi

18-07-2016
Marsala – 4 giugno 2016

 «Ascolta, Signore, la mia voce. Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!» (Salmo 26). Carissimi fratelli e sorelle, l’invocazione del Salmo, oggi, è la nostra invocazione! È l’invocazione di dolore di Antonella, Debora, Valerio che, nel giro di poche ore, hanno subito un distacco improvviso dal marito e padre che tanto adoravano. È l’invocazione della mamma Ida e dei fratelli di Silvio, dei suoi amici e colleghi. È l’invocazione dell’Arma dei Carabinieri, qui rappresentata dal Comandante Generale il Gen. Tullio Del Sette e dai tantissimi Carabinieri presenti. È l’invocazione delle più alte autorità dello Stato, a cominciare dal Presidente della Repubblica, le quali, con straordinario affetto, si sono fatte vicine a questa famiglia assieme al Ministro della Difesa On. Angelino Alfano. È l’invocazione della Chiesa, il grido che, in quanto figli, rivolgiamo al Padre del Cielo; anch’io, come padre, lo faccio con voi, accogliendovi tutti, in particolare la famiglia di Silvio, in un abbraccio commosso e forte. È lo stesso grido di Gesù, con cui Egli accompagna e condivide i passi della nostra fragile umanità. E se Silvio, negli ultimi istanti della vita, ha rivolto questo grido al Padre, Gesù stesso lo ha certo pronunciato per lui e in lui. Se non è mai facile accettare la morte dei nostri cari, meno ancora lo è per un omicidio, per un delitto vile ed efferato, che nulla potrà mai giustificare. Se il distacco è doloroso anche quando avviene in momenti di comunione e condivisione, quanto brutale deve essere, nell’ora della morte, trovarsi dinanzi una mano assassina… Sono i pensieri che forse ci assalgono, ci tormentano, ci turbano, mentre avremmo voluto almeno tendere la mano e accompagnare in cielo il padre, il figlio, il marito, il fratello, l’amico… Ma le parole del Vangelo sono conferma e consolazione: «Colui che viene a me io non lo caccerò fuori… e lo risusciterò nell’ultimo giorno». Ed è così: Cristo lo ha accolto tra le Sue braccia mentre una mano umana lo colpiva; Egli lo ha preso per mano, stringendolo più forte di tutti gli altri giorni della vita, stringendolo con la stretta dell’amore che è più forte della morte.   Il grido di Gesù, dunque, ha raccolto e abbracciato il grido di Silvio, trasformandolo in quelle parole che abbiamo ascoltato dalla prima Lettura (Gb 19,1.23-27): «Io so che il mio redentore è vivo e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio». Sono parole stupende e molto forti, pronunciate da Giobbe mentre, come sappiamo, era sottoposto a una durissima prova che l’aveva privato di tutto e di tutti, donadogli un’esperienza nuova di Dio. Giobbe parla e vorrebbe che le sue parole si scrivessero in un libro: vorrebbe, cioè, comunicare a tutti noi cosa significhi incontrare il Signore nelle tempeste della vita. Ma Giobbe può fare e trasmettere tale esperienza perché è «uomo giusto». Sì, vedere Dio non è la folgorazione di un momento: è l’esperienza della luce che si sparge nel mondo quando venga praticata la giustizia, nel quotidiano e nei doveri della vita. E l’uomo che irradia questa luce neppure se ne accorge, anzi, a volte ha l’impressione di vivere nel buio. Credo sia stato così per il caro maresciallo Mirarchi; anch’io, che non l’ho conosciuto personalmente, quasi posso avvertire il fascio di luce, semplice ma intensa, che la sua vita di giustizia praticata e di dovere assunto con responsabilità, ha lasciato come traccia indelebile. È questa luce, cari amici, che fa vedere Dio; è questa luce che permette a Silvio, come a Giobbe, di spalancare gli occhi sul Sommo Bene, incarnazione del bene che egli ha saputo spargere in terra, illuminando il mondo. Vedere Dio non è soltanto un premio appartenente alla Vita Eterna; è già oggi la beatitudine dei «puri di cuore». Ed era proprio così il maresciallo Mirarchi: una purezza di cuore tradotta in integrità e fedeltà. Nei delicati compiti portati avanti con eccellenti risultati e, soprattutto, con zelo e dedizione, che lo facevano appieno carabiniere; negli affetti familiari, solidi e fondamentali, che lo hanno fatto uomo fino in fondo, capace di tradurre nelle diverse relazioni umane la sicurezza d’amore respirata nella sua famiglia d’origine e nel legame profondo con la moglie e i figli; nel suo cammino di fede, sorgente di quella prontezza nel dare la vita che, come per tanti carabinieri e tanti militari, riconosce non solo l’eroismo ma l’oblatività di una spinta trascendente. Come «Cristo» che «morì per gli empi», risuona nelle parole di San Paolo nella Seconda Lettura (Rm 5,5-11):   «Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona…». Ecco, dunque, il nostro grido, che dice dolore, sconcerto, ma anche gratitudine. Silvio è stato disposto a morire. Da una parte, a «morire per i giusti»; perché tanti giusti, tanti innocenti, soprattutto tanti giovani e ragazzi, fossero protetti dai lacci di quei mercanti di morte che si assicurano il guadagno seminando devastazione nei cervelli e nelle vite di tanti con il commercio delle droghe. E’ la piaga della criminalità organizzata che continua ad affliggere il nostro sud. Davanti al sacrificio del maresciallo Mirarchi tutti abbiamo il dovere di riaffermare l’impegno perché tutte le mafie vengano sconfitte. Era, quest’ultima missione, parte della sua identità profonda di carabiniere, ma anche del suo essere uomo giusto e padre. Ed è per questo che, dall’altra parte, Silvio è stato pronto a «morire per gli empi»; mettere a rischio la sua vita per assicurare questi mercanti di morte alla giustizia e, assieme, alla possibilità di recupero, di rendenzione. Alla possibilità che anche i nemici, come dice ancora San Paolo, possano essere «riconciliati» tra loro e con Dio. È un messaggio di pace, questo; nascosto tra le pieghe del servizio umile e forte – e non sempre riconosciuto – dei nostri cari carabinieri, dei nostri militari. Un servizio che vuole confermare l’Italia nella «vocazione alla pace»[1] della quale il Presidente della Repubblica ha parlato qualche giorno fa, ricordando peraltro «i militari che hanno perso la vita, in Italia e all’estero» per difenderla[2].  Anche quello seminato da Silvio è stato un seme di pace e speranza, è stato il sacrificio straziante fatto da un uomo che sapeva sperare. E in un tempo in cui la speranza viene falciata via dalle guerre, dalla miseria, dalla crisi economica e lavorativa, dall’indifferenza dinanzi alle morti di tanti uomini rifiutati, come stranieri o scarti, dalle società ricche, morire per i giusti e per gli empi significa credere – e far credere – che «la speranza non delude».   Grazie, caro Sivlio, per il tuo essere stato faro che illumina le tenebre dell’egoismo in cui precipita la nostra società, l’Europa tutta, e in cui spesso precipitiamo noi; grazie per il tuo essere luce di speranza, anche fino al tuo sacrificio, fatto per amo sAre dei giusti e degli ingiusti, per amore dei giovani che, come gli occhi dei tuoi amati figli ti hanno insegnato, sono la speranza di futuro dell’umanità. Continua a sostenere la speranza dei tuoi cari, perché sentano ogni giorno teneramente vicino te e operante la fecondità del dono della tua vita, come quello di Cristo. Continua a sostenere la speranza dei tuoi colleghi e amici, di tutti gli uomini delle Istituzoni, perché abbiano la forza di lottare come te per il «bene comune», senza protagonismi o proclami, ma nella dedizione silenziosa, costante, amorevole. E continua a sostenere la speranza della nostra comunità, della Chiesa tutta, particolarmente chiamata a sostenere la nostra amata Italia in quella «vocazione alla pace» che essa può meglio comprendere anche grazie al dovere e alla fedeltà, al sacrificio e all’amore di carabinieri, di militari, di uomini come te. E così sia!X Santo Marcianò


[1] Sergio Mattarella, Discorso dopo il Concerto per il 70° anniversario della Repubblica Italiana, Quirinale, 1 giugno 2016
[2] Cfr. Sergio Mattarella, Messaggio al Capo i Sati Maggiore della Difesa in occasione del 70° anniversario della Repubblica Italiana, 2 giugno 2016