04-04-2015
Carissimi confratelli presbiteri,
cari fratelli e sorelle,
siamo qui assieme ed è sempre un grande dono e una grande gioia. Vi saluto tutti con affetto; ringrazio di cuore i presenti, per alcuni dei quali non è stato facile allontanarsi dai luoghi del ministero; saluto gli assenti, soprattutto coloro che non possono essere qui perché malati o sofferenti; un ricordo particolare ai cappellani in pensione, la cui preghiera sempre ci accompagna e ci conferma nella gioia di essere un «unico» presbiterio che, nella Solenne Liturgia Crismale, celebra il Mistero del sacerdozio. Se ci pensiamo bene, infatti, questo Mistero può essere celebrato solamente assieme, solamente nella comunione presbiterale, ecclesiale e cristocentrica.
È un «unico» sacerdozio, quello di Cristo e del presbitero; è un «unico» sacerdozio, quello del vescovo e dei suoi sacerdoti; è un «unico» sacerdozio, quello che, poi, diventa sacerdozio comune dei fedeli.
Ed è bellissima questa peculiare «unità» del ministero sacerdotale che respira dentro l’«unità» della Chiesa. Potremmo dire che il sacerdozio è una comunione dentro la comunione ecclesiale, è un corpo dentro il corpo della Chiesa, è un’unzione dentro l’unica unzione battesimale.
Oggi noi siamo qui per fare memoria di questa «unzione» e, allo stesso tempo, rinnovare le promesse del sacerdozio.
Far memoria e rinnovare sono due risvolti di un unico atto che permette, entro quell’unità di cui parlavamo, di ritrovare il senso dell’unicità della nostra storia personale; di ritrovare il nostro volto di oggi, con le fatiche e difficoltà ma anche con le ricchezze e sfide del ministero, all’interno dell’unico volto che è il sacerdozio. Un volto che la Parola di Dio e l’oggi della Chiesa ci permettono di descrivere con un’unica espressione: «misericordia».
Sì, se la Misericordia di Dio e di Cristo potesse, per così dire, avere un volto umano, questo dovrebbe essere il volto del sacerdote!
Solo qualche settimana fa, Papa Francesco ha annunciato l’Anno Santo della Misericordia, raccomandandolo in particolare proprio a noi sacerdoti. È un invito che non va guardato in modo riduttivo, come se fosse, per così dire, la semplice proposta di un maggiore “buonismo” per i confessori. La sfida è più esigente e profonda, può e deve significare, prima di tutto per noi presbiteri, rinnovamento, conversione, richiesta di perdono. E il rinnovamento, non lo dimentichiamo, comincia sempre “oggi”.
Rinnovando le promesse sacerdotali, risponderemo il nostro «sì»; e mi piace pensare alla misericordia come al «sì», l’«Amen» di cui parla l’Apocalisse (Ap 1,5-8), declinato in tre «sì»: all’uomo, alla storia, a Dio.
1. Un «sì» all’uomo.
Nella prima Lettura (Is 61,1-3.6.8b-9) Isaia pone dinanzi ai nostri occhi una distesa di poveri – miseri e piagati, schiavi e prigionieri, uomini afflitti dalla sofferenza o dal lutto – ai quali, concretamente, l’unzione ci invia. Il «sì» del sacerdote all’uomo passa da qui, da una missione che si fa incontro. E l’incontro, sappiamo bene, cambia la vita, come il lebbroso per San Francesco o il morente abbandonato per la beata Teresa di Calcutta.
Quanti incontri nelle nostre caserme, nelle missioni di pace, nei luoghi della formazione… È bello rileggere così il «sì» che rinnoveremo alla domanda: come il «Cristo pastore», volete «lasciarvi guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i vostri fratelli?»
Sono parole che riaccendono in noi il “munus regendi”, il carisma del pastore che guida – come direbbe Papa Francesco – a volte precedendo a volte seguendo il gregge. Un pastore che deve incontrare e accompagnare, che deve “esserci”! Come non pensare alla nostra diocesi, segno, sacramento di una Chiesa che sceglie di “esserci”, per incontrare e accompagnare il mondo militare?
Oggi tutti abbiamo, per così dire, sete di presenza. Le relazioni umane, affrettate da tempi ingolfati e liquefatte da spazi virtuali, smettono di nutrirsi di incontri. La profezia di Isaia, invece, spalanca agli occhi e al cuore il numero sconfinato di persone che attendono questo tipo di misericordia, la misericordia dell’”esserci”: bisogna esserci per sanare e fasciare, scarcerare e liberare, incontrare e accompagnare, per permettere alle persone di entrarci nelle viscere e nel cuore.
Con il «sì» all’uomo, il crisma da noi ricevuto è riversato sui fratelli, diventa balsamo che lenisce, guarisce, consola.
2. Un «sì» alla storia
Nel Vangelo (Lc 4,16-21), Gesù si mostra nell’atto di annunciare, mandato dallo Spirito di sapienza e con gesto di maestro. Bisogna tenere legate queste due parole – sapienza e insegnamento -, perché la nostra chiamata a essere maestri non significa, lo vediamo sempre più anche dall’esempio di Papa Francesco, uno stare in cattedra ma un interpretare la storia in modo sapienziale.
È interessante che Gesù riprenda le stesse parole di Isaia: il Suo insegnamento conduce alla pienezza ma rimane umile, non porta novità di rottura, non vuole il marchio dell’originalità o dell’autoreferenzialità, non si scosta dalla tradizione ma accoglie la profezia e, con essa, lo Spirito che la suscita: quello stesso Spirito che Lo unge e Gli permette di parlare in pienezza.
«Volete adempiere il ministero della parola di salvezza sull’esempio del Cristo, capo?». Il «sì» rinnovato a questa promessa chiede a ciascuno di noi l’umiltà di muoversi tra profezia e annuncio, per una lettura sapienziale della storia umana. Ed è qui la misericordia che il “munus docendi” ci permette di custodire e portare.
Una misericordia che si può sempre annunciare, anche dinanzi al male più buio, perché è proprio la misericordia, come ricordava San Giovani Paolo II, il «limite» posto da Dio al male umano. Non è forse la misericordia, ancora oggi, la risposta dei martiri al terrorismo, al fondamentalismo, alla violenza? Non è la loro un’eco della stessa misericordia di Dio capace, seppure a costo della vita, di porre un limite a ogni guerra e violenza?
Nasce da qui il grande annuncio della pace, oggi così urgente e in modo peculiare affidato al nostro ministero di cappellani militari, che chiede l’intelligenza, la sapienza di scoprire strumenti di pace sempre più efficaci, fondati sul Vangelo e accompagnati da una testimonianza limpida: strumenti in grado – senza facili pacifismi ma con la quotidianità dell’impegno educativo, con la fraternità del nostro essere uomini di comunione, con la fiducia nella misericordia e nella preghiera – di sprigionare energie di bene sempre più grandi in quei militari che, per la pace, sono pronti a offrire la propria vita.
E penso alla grande sfida che abbiamo raccolto dal Sinodo: la famiglia, bene prezioso e insostituibile, anche per la Chiesa e il mondo militare. Ne abbiamo riflettuto nell’incontro di aggiornamento dei Cappellani a Loreto e torneremo a farlo, dopo esserci anche impegnati nelle risposte al Questionario; e vogliamo che la famiglia sia tra i nostri impegni pastorali più urgenti e sia annuncio ricco di misericordia e verità.
In realtà, nel nostro “munus docendi”, misericordia e verità si possono davvero incontrare. Così il crisma, olio che ci rafforza nell’annuncio di verità, diventa per altri, se da noi donato, forza per obbedire alla verità. Quella verità che non è moralismo ma è la Persona stessa di Gesù.
3. Un «sì» a Dio
Ecco, allora, l’ultimo «sì» che è poi il primo: il «sì» a Dio, cuore dell’unzione. «Volete unirvi intimamente al Signore Gesù, modello del nostro sacerdozio, rinunziando a voi stessi?». Tutto parte dalla relazione con Lui: e l’«Amen» ci sigilla nell’intimità, nell’«amore del Signore», come abbiamo cantato nel Salmo 88.
La misericordia parte dall’essere “miseri-corde”, poveri di amore, condizione per farsi riempire dall’amore di Dio. Il crisma, così, diventa profumo che ci avvolge e si spande, come il balsamo versato su Gesù dalla donna (Mc 14,3-9), nell’episodio evangelico che, significativamente, ha aperto la Settimana Santa e tutto il racconto della Passione.
È proprio vero: la condizione della vera unzione è versare, sprecare, se così si può dire. Come ha detto il Papa all’omelia Domenica delle Palme 2015, «svuotarsi».
Sì, bisogna svuotarsi per essere unti, riempiti dell’olio profumato e bisogna svuotarsi per versare quest’olio, affinché unga la carne di Cristo.
È il gesto di reciprocità, della reciprocità dell’amore.
È il “munus santificandi”, contemplato e vissuto come amore che ci impregna a tal punto da diffondersi.
È il mistero della preghiera, dell’Adorazione: respiro della vita del prete, profumo della vita del prete.
Dovè, dunque, il nostro amore, dov’è la nostra preghiera? Senza di essi, forse, la nostra vita rischia di fare puzza…
Carissimi confratelli,
«Sì», dunque, «Amen». Ripetiamolo per Cristo, con Cristo e in Cristo, perché «in Lui vi fu il “sì”» (2Cor 1,19).
E che la grazia di questa Celebrazione Crismale ci aiuti a spandere il profumo del nostro sacerdozio: a ritrovarlo se lo abbiamo smarrito, a rinvigorirlo se lo sentiamo indebolito, a gustarlo se lo cerchiamo senza sosta, a versarlo, se siamo impauriti o chiusi in noi stessi.
A donarlo e a spanderlo, perché questo profumo riveli, nel nostro volto sacerdotale, il dono, il mistero e la speranza dell’infinita misericordia di Dio.
E così sia!
X Santo Marcianò