Omelia per la S. Messa al Cimitero del Verano

20-02-2014
 2 novembre 2013
 
 
Carissimi fratelli e sorelle,
vi saluto tutti con grande affetto e stima profonda, in questa Solenne Celebrazione, tra le prime che mi trovo a presiedere come vostro Ordinario.
Saluto con tutto il cuore i carissimi sacerdoti concelebranti, i cappellani militari della zona di Roma, impegnati in un ministero di guida e sostegno spirituale necessario e prezioso per le Forze Armate.
Saluto i capi di stato maggiore, gli ufficiali, i rappresentanti delle varie armi, tutti i militari e le loro famiglie, ringraziandoli profondamente per quanto operano e augurandomi che tanto potremo fare lavorando e camminando insieme.
Il mio abbraccio va poi alle famiglie dei caduti, alle quali già nel primo Messaggio ho espresso tutta la mia commossa vicinanza.
Saluto, infine, tutti i presenti, in questa Liturgia Eucaristia che, in un giorno e in un luogo particolare, ci immette nel ricordo, ci apre al ringraziamento, ci interroga sul senso. Sono tre realtà in cui la Parola di Dio ci proietta; sono i tre tempi del passato, presente e futuro; sono tre stati d’animo che, penso, tutti ci accomunano e rendono questa solenne Celebrazione particolarmente intensa, commossa, assorta, partecipata. E partecipata non solo nel senso che siamo in tanti ma perché partecipiamo con tutto di noi. Non è presenza formale, è adesione del cuore che fa memoria, dell’essere che rende grazie, della mente che, dinanzi alla morte, non può non sentirsi riproporre la domanda sul senso della vita, del lavoro, dell’impegno… addirittura sul senso stesso della chiamata dei militari a “servire l’umano” – mi piace dire così – difendendolo e custodendolo.
 
1. Prima di tutto, il ricordo, che ci rimanda al passato.
Oggi, commemorando i nostri caduti e i nostri defunti, veniamo immersi nella memoria della nostalgia, dell’affetto, dell’ammirazione, talvolta della ferita aperta. Il ricordo è “peso” che sentiamo in cuore ed è pure esempio a cui attingere, memoria da onorare.
Sono colleghi, amici, fratelli… sono uomini e donne che, in circostanze e situazioni diverse, hanno messo la loro vita nelle mani di una causa nella quale hanno creduto, nel compimento onesto di un dovere al quale hanno prestato fede, nella difesa di ideali o di vite umane che, per loro, avevano un peso maggiore della paura e della morte.
Sì, per coloro che oggi onoriamo e ricordiamo, è stato il peso specifico della vita degli uomini che essi hanno difeso a spostare l’ago della bilancia; per noi, oggi, è il peso specifico della loro vita a segnare il valore del dolore e della memoria.
Ecco, questo peso che abbiamo nel cuore si confonde col peso specifico della vita. Non c’è una vita che valga più di un’altra. E non perché sia un valore in qualche modo relativo a valutazioni differenti ma proprio perché è un valore assoluto; sul piatto della bilancia, inevitabilmente, essa pesa più di tutto il resto o, meglio, va misurata con un’unità diversa da tutto il resto.
Ed è proprio questa unità di misura assoluta che può portare ad offrire la propria vita piuttosto che lasciare che venga violata la vita altrui. Ma come è possibile arrivare a questo?
La Parola di Dio che abbiamo ascoltato fa riferimento al «regno» preparato da Dio «fin dalla creazione del mondo». Anche se l’interpretazione dell’espressione «regno di Dio» nella semantica biblica è piuttosto complessa, possiamo riassumerla così: c’è un “dono” che ci precede; un dono che vi invito a collegare alla parola «Abbà, Padre».
San Paolo ci aiuta ad esclamare: «Padre, Abbà, Papà»! Sussurriamolo, nel profondo del cuore, rendendoci conto che siamo «figli», che tutti gli uomini sono «figli» voluti, amati, scelti fin da un passato che affonda le sue radici nella creazione del mondo, nell’eternità. La consapevolezza di aver ricevuto in dono dal Padre il proprio essere rende capaci di donare l’esistenza per i fratelli.
 
2. Sgorga, così, il ringraziamento, che si declina al presente.
Noi oggi diciamo grazie: per il dono delle vite di questi caduti, che ci insegnano il valore del dono; per il dono della vita; per la nostra stessa vita. Sappiamo che la parola Eucaristia significa “rendere grazie” ma è proprio la Messa a ricordarci che, per dire veramente grazie, non bastano le parole: occorre che questa gratitudine sia vissuta, incarnata, attualizzata nel presente. La Messa, infatti, non è una parata più o meno solenne ma il rivivere un Sacrificio, quello di Gesù, il quale ci viene incontro, ci ama, ci salva oggi. Salva me, salve te; ama me, ama te. E lo fa oggi!
Come incarnare anche noi, oggi, il nostro “grazie”? Come farlo veramente essere un atto che rende vivo il sacrificio dei nostri caduti e attualizza l’eredità che essi ci hanno lasciato?
La risposta è nel Vangelo che abbiamo proclamato, forse la pagina più provocante di tutta la Sacra Scrittura: la risposta è il Volto di Gesù che, semplicemente, si presenta a noi nel volto di chi è affamato, assetato, straniero, nudo, malato, carcerato e ci chiede di scegliere se sfamare, dissetare, accogliere, vestire, visitare… se «fare» o «non fare» questo a uno solo dei nostri fratelli più piccoli.
I militari, in realtà, lo fanno: anche e soprattutto quando gli altri se ne disinteressano, noi cerchiamo di assicurare difesa, soccorso, vicinanza a chi è nel bisogno, nell’emergenza, nella necessità, nel pericolo, talora nella stessa solitudine.
Ma, a una lettura attenta, ci accorgiamo che la proposta del Signore va oltre e ci fa chiedere: come lo facciamo? Perché lo facciamo? Chi è quel fratello che abbiamo dinanzi nel farlo?
Cari amici, qualcosa cambia, tutto cambia se, nell’avvicinare anche la più piccola creatura umana, sappiamo contemplare quella che Papa Francesco non smette di ricordarci essere «la carne sofferente di Cristo».
Il “perché”, potremmo dire, diventa un “per Chi”!
 
3. Ecco, allora, il senso, che orienta il nostro pensiero al futuro.
Quella del senso, infatti, è una domanda ma, se ci pensiamo bene, è anche una speranza che sostiene la durezza e il disincanto, il rischio e la banalità, l’ingiustizia e il male del presente.
È incredibile come la Liturgia della Parola di questa Messa di commemorazione proietti prepotentemente il nostro sguardo e il nostro cuore verso il futuro, quasi in apparente conflitto con lo stato d’animo di oggi. È al futuro che parla Gesù riferendosi al giorno del Giudizio: «Quando il Figlio dell’uomo verrà, siederà… separerà… dirà…». È il futuro che, nella prima Lettura, il profeta Isaia ci chiede di immaginare: «Il Signore preparerà un banchetto… eliminerà la morte… asciugherà le lacrime su ogni volto…».
Quante volte, cari amici, noi pretendiamo di utilizzare solo le categorie del passato e del presente per capire la vita, per vivere la vita, per cercare la felicità nella vita. Ci nascondiamo dietro rimpianti o ci rifugiamo nell’attimo fuggente; mormoriamo per ciò che non abbiamo più o ci preoccupiamo di trattenere ciò che possediamo.
Questa Celebrazione, invece, dice che il senso della vita si misura sul futuro, si capisce al futuro. E non si tratta di futuro inteso semplicemente quale Giudizio Finale. Si tratta di guardare “alla fine” per cogliere “il fine”; si tratta di combattere quella che Papa Francesco ci presenta come l’allarmante «cultura del provvisorio» con quella che potremmo chiamare la «cultura dell’eterno».
I nostri caduti lo hanno fatto: sorretti dalla forza di un ideale, dalla responsabilità verso gli altri o anche dalla certezza della fede nella Risurrezione di Cristo, hanno percepito che la morte, la violenza, l’ingiustizia, la guerra vanno combattute sempre, con forza ma non con le stesse armi. Perché la morte, la violenza, l’ingiustizia, la guerra appartengono a ciò che finisce, al provvisorio: il dono di sé, l’amore, appartiene a ciò che non passa, appartiene all’eterno.
 
Carissimi,
mentre, con commozione e trepidazione, muovo i primi passi del mio ministero come vostro pastore, anch’io porto in cuore il ricordo di quanto Dio ha fatto nella mia vita e nella mia vocazione e il sincero ringraziamento per avermi condotto qui tra voi, a servire la Sua Chiesa in questa Chiesa che già amo intensamente. E porto anche una grande speranza: che insieme, sorretti dall’amore di Dio, sapremo accogliere nel profondo della nostra coscienza le parole di Gesù, lasciandoci plasmare e trasformare dalla cultura dell’eterno.
È questo “eterno” che oggi rimane e risplende, nella testimonianza dei nostri caduti e nel ricordo dei nostri cari defunti; è questo eterno che chiede a tutti noi cammini di conversione e crescita, di preghiera e comunione; è questo eterno che può cambiare il mondo se sapremo fare, di ogni gesto di custodia e difesa della vita, un atto di pace, di dono, di amore verso il più piccolo dei fratelli, ritrovando così, nel nostro “servire l’umano”, una scintilla di “divino”.
E così sia!
 
 
X Santo Marcianò