Carissimi fratelli e sorelle,
«Un tempo di grande angoscia, come non c’era mai stato dal sorgere delle nazioni fino a quel tempo».
La profezia che offre la prima Lettura (Dn 12,1-3) sembra descrivere il tempo della pandemia. Un tempo in cui l’angoscia ci ha preso, ci ha stretto la gola, ha bloccato tante attività e tanti pensieri; un tempo che non avevamo mai sperimentato, qualcosa che anche la storia non ci aveva finora consegnato, perlomeno con queste caratteristiche. Un tempo che il profeta Daniele riferisce non a una o a poche persone ma a un «popolo», quasi che sia la stessa angoscia a far sentire la dimensione di «popolo».
La sottolineatura ci riguarda; infatti, la pandemia che abbiamo vissuto, e stiamo ancora vivendo, ci riguarda come popolo, come Nazione, come famiglia umana: non siamo certo indifferenti davanti alle cifre impressionanti dei contagi, dei malati, dei morti a livello mondiale.
Ma è anche vero che questa esperienza ci ha fatto sentire popolo. Popolo che ha affrontato un pericolo comune, popolo che ha cercato vie di solidarietà, popolo che ha pianto tante vittime, per la prima volta senza poter dare loro un ultimo saluto, senza la celebrazione delle Esequie.
Siamo qui, oggi, a salutare queste vittime, in particolare i Carabinieri morti a causa del Coronavirus o, comunque, nel tempo del Coronavirus.
Siamo qui come famiglia dell’Arma e come Chiesa dell’Ordinariato Militare; siamo qui come cittadini italiani, come popolo che, nella pandemia, si è scoperto più fragile e vulnerabile rispetto alla malattia, ma anche più forte, ovvero ancora più capace di rispondere alla vocazione di cura, sostegno, custodia, accoglienza e protezione, che costituisce il DNA della nostra Patria e delle stesse Forze Armate.
Questo popolo, dicevamo, ha sentito un senso di appartenenza verso i morti di questo tempo.
Come dimenticare il terribile corteo delle bare che i nostri militari hanno scortato nel bergamasco? Come non sentire tristezza e fierezza assieme per i tanti medici e sanitari, militari e sacerdoti, che hanno servito fino alla fine per difendere la vita altrui? Sì, li abbiamo sentiti parte della comunità questi defunti e oggi vogliamo sentirci comunità mentre ricordiamo tutti i Carabinieri italiani morti in questo tempo.
Non è un gesto superfluo e neppure formale. È la convinzione profonda che la morte sia in continuità con la vita della persona umana; che pur esprimendone, per così dire, l’altro volto, ne confermi il valore insostituibile, la dignità intrinseca, la sovrabbondante trascendenza.
Con parole ancora attuali, il Concilio lo ricorda: «Il germe dell’eternità che l’uomo porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia, insorge contro la morte. Tutti i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo: il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore»[1].
Una celebrazione come la nostra esprime una tale certezza. E dice, inoltre, la gratitudine profonda per le vite di questi nostri Carabinieri che, con la loro missione, hanno arricchito la famiglia dell’Arma e hanno onorato l’Italia. Pur rispettandone l’intimità, li ricordiamo da uomini e donne a servizio dello Stato e delle Istituzioni, esempio e testimonianza di impegno per il bene comune, la giustizia, la pace. Uomini e donne per i quali abbiamo pianto insieme e oggi piangiamo insieme, lasciandoci toccare il cuore dalle loro vite spente nella solitudine, strappate all’affetto dei propri cari, private del Rito delle esequie.
Se la prima Lettura ha sottolineato l’angoscia del popolo, il Salmista (Salmo 42-43) sembra rileggere il mistero di queste morti dalla prospettiva della singola anima, piombata nel buio della notte, nell’arsura della sete e dell’assenza di Dio, nei ricordi che si ripresentano e, alla fine della vita, sembrano un flash quasi doloroso.
«Perché ti rattristi anima mia?». L’espressione néfes indica l’anima nel senso di interiorità dell’uomo. E tutti ci siamo certamente chiesti cosa abbiano sentito dentro coloro che morivano nelle terapie intensive, forse aiutati solo dalla mano, dal sorriso di un medico o di un infermiere o almeno dalla concessione di un telefono per l’ultimo saluto ai propri cari.
E’ vero: tutto questo ci ha colpito, commosso. Tutto questo non si potrà dimenticare. Tutto questo – oggi come nei giorni più bui della pandemia – si fa preghiera, supplica, invocazione…
E Dio risponde! E la Sua Parola non ci lascia chiusi nell’orizzonte della tristezza!
Quel popolo preso nella morsa dell’angoscia più impensabile è un popolo che – assicura il profeta – «sarà salvato». Quel Dio che sembrava nascosto è, in realtà – continua il Salmista -, «il Dio della mia gioia». Quell’anima che vaga, che corre come una cerva inquietata dalla sete, trova infine la sua strada: «Verrò all’altare di Dio».
«Verrò»! Il verbo al futuro, per i Carabinieri che oggi ricordiamo, è al presente; un presente che ci consola, che ci aiuta a superare la paura e l’angoscia della solitudine dinanzi alla morte.
«Verrò»! dice il Salmista. Sembra quasi la risposta a una chiamata; una di quelle chiamate alle quali i militari sanno rispondere con prontezza.
Ed è proprio questo essere «pronti» che il Vangelo (Lc 12,35-40) sottolinea. «Tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate».
Siamo forse abituati a leggere queste parole in senso moralistico o allarmistico, come l’accadere di qualcosa di inevitabile. Eppure, se ci pensiamo bene, troviamo qui il senso del servizio del Carabiniere, il senso di ogni esistenza concepita come servizio. Ricordando questi defunti, non possiamo non sottolineare tale peculiarità; non possiamo intravedere, nella prontezza, l’atteggiamento di chi non si lascia frenare dalla pigrizia, dalla paura, dalla salvaguardia dei propri interessi, ma si lascia provocare dalle esigenze della società, dalle sfide della storia, dai bisogni dell’uomo. Una prontezza che dice l’attenzione del cuore, la sveltezza del passo, il coraggio della decisione, la dedizione nel servire. Ed è commovente che Gesù ricambi tutto questo «passando e servendo» chi ha saputo servire.
Cari amici, oggi ci sembra di vedere questa scena in Cielo: il Signore che ricambia con il Suo servizio d’amore chi Lo ha servito nei fratelli, soprattutto quelli più poveri, soli, indifesi; chi Lo ha servito custodendo il creato, difendendo la giustizia, operando per la pace.
Vorrei lasciarvi un’ultima immagine: il cuore della scena che vediamo è l’incontro.
Io «verrò», ha detto il Salmista; il Signore «verrà», promette Gesù.
La fede non ci rivela cosa accadrà dopo la morte ma ci regala la certezza che la morte è davvero un incontro, nel quale si va verso quel Dio che viene, che nessuno muore da solo.
Una certezza che smorza l’angoscia e illumina il buio nel quale tutti, soprattutto i familiari, ci siamo trovati a piangere i morti durate la pandemia.
Lasciamo che la fede rischiari questo buio.
Lasciamo che lo rischiari la speranza.
Lasciamo che lo rischiari la carità che ha abitato i cuori dei nostri Carabinieri defunti e li ha resi capaci – dice ancora la prima Lettura – di «risplendere come le stelle per sempre», di illuminare il mondo con la giustizia e la pace.
E così sia!
Santo Marcianò
[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 18