LA GIUSTIZIA – Rimetti a noi i nostri debiti… Liberaci dal maligno
Terrasini (PA), 12 settembre 2020 – Omelia alla S. Messa
«Signore, insegnaci a pregare»! Per rispondere a questa richiesta Gesù ci dona, nel Padre Nostro, parole essenziali, che racchiudono il senso della preghiera e della vita; parole sacre, se è vero che Egli stesso chiede di non «sprecarle», come ricorda il tema della bellissima iniziativa nella quale si inserisce la nostra Celebrazione, per la quale esprimo viva gratitudine al caro confratello monsignor Pennisi, vescovo di questa diocesi, a TV2000 e ai media della CEI, a tutti gli organizzatori, salutando di cuore i presenti e coloro che ci seguono in TV o in Internet, in particolare le persone malate, anziane, sole.
Sprecare qualcosa non significa esclusivamente usare con eccesso, magari buttandola via, ma anche trattarla in modo errato, perdendone o distorcendone il valore. Nei dialoghi umani o anche nella preghiera, le parole sono sprecate se equivocate, strumentalizzate, incapaci di diventare vita. Ecco perché vogliamo dire: «Signore, insegnaci a parlare!». Come ogni padre fa con i figli, insegnaci Tu il linguaggio della preghiera che, nella vita, diventa la grammatica dell’amore.
E la parola che le due invocazioni del Padre Nostro ci invitano oggi a pregare è la «giustizia»; parola con un significato profondo, che ci vuole incarnati nella storia di questo tempo, di questa stupenda terra, ma, al contempo, ci proietta verso l’Alto. Sì, proprio la giustizia, necessaria a riequilibrare rapporti di convivenza umana o dinamiche socio-politiche, ci supera, ci spinge oltre, nello spazio e nel tempo; e lo fa con due parole che vorrei provare a rileggere con l’aiuto delle Letture odierne: comunione e fortezza.
«Rimetti a noi i nostri debiti». Giustizia è comunione.
È vero, la giustizia anzitutto rimanda alla necessità di dare a ciascuno il suo, riconoscendo la dignità e i diritti inalienabili di ogni persona, fondamento del vivere civile e pacifico. Ma la «comunione» con il corpo e sangue di Cristo che ci fa «un solo corpo», di cui parla la prima Lettura (1Cor 10,14-22), è molto di più: è uscire dagli spazi angusti dell’egoismo, sentendo come proprio, allo stesso modo in cui il corpo soffre il dolore di ogni membro, il peso delle sofferenze dell’altro e della vita che perde valore: come nel giovane Willy, ucciso dalla violenza assurda di giovani vite bruciate da superficialità, droga, non senso; nei tanti poveri e affamati del mondo, più numerosi dopo la crisi del coronavirus; nei migranti che in queste coste trovano asilo, ma in tanti mari trovano la morte; nei bimbi vittime di guerre, abusi pratiche abortive sempre più facili e mascherate; nei malati e anziani abbandonati a solitudine o eutanasia; in coloro che fanno il bene, non sempre capiti e protetti, ma certi che dal bene di uno dipende il bene di tutti.
La dottrina sociale della Chiesa interpreta in questa luce il significato del «bene comune». E la storia racconta quanti passi di bene siano fatti laddove regni un tale stile comunionale, non ultimo nella recente pandemia: dal servizio instancabile del personale sanitario, alla condivisione dei beni materiali di gente semplice e povera; dalla salvaguardia dell’ordine pubblico, alla gestione dell’emergenza da parte dei nostri militari; dalla gioia di riscoprire dinamiche domestiche e familiari, alla preghiera che porta al Padre il dolore del mondo e ci fa sentire Chiesa… È la logica eucaristica che salva il mondo e ci rende giusti nella misura in cui – dice Gesù ed è bellissimo – ci fa sentire «debitori» ovvero consapevoli di aver ricevuto tutto in dono: debitori di gratitudine, misericordia; del perdono che cambia i cuori e vince definitivamente l’odio, la vendetta, il male.
«Liberaci dal maligno». Giustizia è fortezza.
E questa terra, la nostra terra del Sud, forse più di altre è sacramento eloquente di come la liberazione dal male richieda di essere forti grazie alla «roccia» su cui Gesù nel Vangelo (Lc 6,43-49) esorta a costruire.
La «fortezza» cristiana non si misura su criteri di potenza o violenza; è combattimento, certo, ma in una lotta per cui occorre soprattutto resistere alla menzogna e al male, perseverando nella verità e nel bene, anche quando costi fatica, persecuzione, sacrificio. Una fortezza non prodotta dall’uomo ma attinta con fede dalla «roccia» che è Cristo. E quanto bene la fede vissuta può portare alla città dell’uomo!
Sono i «frutti buoni», maturati su alberi con radici profonde. Penso a tanti frutti di giustizia nati, proprio in Sicilia, da semi piantati dal dono di sé di uomini e donne, forti perché hanno resistito fino al sacrificio della vita, per contrastare il male della criminalità organizzata, della corruzione, dell’ingiustizia, dell’illegalità, dello scarto: uomini di Stato, magistrati, militari, operatori dell’informazione, educatori, sacerdoti, consacrati… tutti coloro che, oggi come ieri, considerano il «bene comune» – potremmo dire con il Papa – la «roccia» su cui «costruire una società sana, inclusiva e pacifica», riscoprendo nell’«amore» la «risposta cristiana» a tutto, anche «alla pandemia e alle conseguenti crisi»[1]; la via che compie, include e supera la giustizia, spalancando un orizzonte di accoglienza, di bellezza, di eternità.
Maria, Madre della Bellezza e dell’Eterno Amore, chiedi a Dio per noi, la Sicilia, l’Italia, il dono di una giustizia che ci faccia sentire debitori e liberati dal male, perdonati e strumenti di perdono; figli, forse balbettanti ma grati, che imparano a non sprecare parole e a saper dire la parola «Padre». E così sia!
Santo Marcianò
[1] Francesco, Udienza Generale, 9 settembre 2020