Omelia S. Messa nella Giornata Mondiale del Malato

10-02-2023

Roma, Policlinico Militare del Celio, 10 febbraio 2023

 

Carissimi fratelli e sorelle, con gioia condividiamo l’Amore di Gesù, che spezza il pane e si fa Pane per noi, con voi che, da medici e operatori sanitari, spezzate con i fratelli il pane della malattia e vi fate Pane per alleviare la sofferenza umana. È Mistero la sofferenza, la malattia, la morte; ed è Mistero nel Mistero come nella sofferenza, nella malattia, nella morte, si possa fare l’esperienza straordinaria di una sovrabbondanza di cura, di vicinanza, di amore; a volte, quasi paradossalmente, di un amore che mai si era sperimentato prima e che porta qualcuno a benedire il Signore, non solo “nonostante” la malattia ma proprio “per” la malattia.

Certo, non è sempre così. E, anche quando lo fosse, la sofferenza rimane tale; rimane un grido che ci interpella e interpella particolarmente voi, operatori sanitari. E tanto più ci e vi interpella quanto più non perdiamo di vista che, dietro ogni malattia e sofferenza umana c’è, appunto, l’umano: c’è la persona, con il vissuto della sua individualità e fragilità, con la sua speranza e le sue paure, che spesso si sintetizzano nell’unica grande paura della morte.

È questo essere umano che voi siete chiamati a servire.

È la persona, con la malattia del corpo e le sofferenze del cuore. E oggi noi lo ricordiamo, celebrando la Giornata Mondiale del malato, della persona del malato, non della malattia in genere. Perché «la malattia fa parte della nostra esperienza umana. Ma essa può diventare disumana se è vissuta nell’isolamento e nell’abbandono, se non è accompagnata dalla cura e dalla compassione», scrive il Papa nel suo Messaggio per questa Giornata. Un Messaggio nel quale, peraltro, ci esorta ad affrontare la malattia in modo «sinodale»: a riscoprirla, cioè, da una parte come esperienza di quel cammino comune nel quale, a volte, «è normale che qualcuno si senta male, debba fermarsi per la stanchezza o per qualche incidente di percorso»; dall’altra parte come verifica, che ci fa chiedere se il nostro «è veramente un camminare insieme, o se si sta sulla stessa strada ma ciascuno per conto proprio, badando ai propri interessi»[1].

Il tempo della malattia e della sofferenza, dunque, rivela se la comunità umana – sia essa la famiglia, il quartiere, la parrocchia, la società, la Chiesa, una comunità militare, un Ospedale come questo… – è fondata o meno sulla fraternità, sulla centralità della persona, specie se fragile; se è luogo di «quell’attenzione compassionevole» di cui «tutti – spiega il Papa – abbiamo bisogno» e che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare»[2].

Fermarsi, avvicinarsi, curare, sollevare: quattro parole, quattro dinamiche concrete, che oggi ritroviamo anche nella Parola di Dio e che vengono consegnate e voi, medici e operatori sanitari.

Nel Vangelo (Mc 7,31-37), Gesù è in viaggio. «Uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli», scrive Marco. Lo possiamo pensare stanco del lungo cammino, oppure ansioso di arrivare alla meta, preso dai mille impegni e richieste delle persone che Lo circondano o vanno dietro a Lui… Quante volte anche noi siamo affannati nel cammino, ingolfati di richieste di ogni genere, che forse ascoltiamo distrattamente mentre corriamo verso una determinata meta. Eppure Gesù si ferma, perché gli portano un sordomuto e lo pregano di imporgli la mano; ferma il tempo, ferma la scena, ferma tutto il cammino suo e dei suoi discepoli; dunque, ferma il nostro cammino e ci insegna che quel sordomuto, quel malato, quel sofferente che portano a Lui e a noi è la vera meta, l’unica meta del cammino umano, in particolare del cammino di chi deve servire i malati. «La condizione degli infermi – continua il Papa nel suo Messaggio – è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli»[3].

Gesù si ferma e si avvicina: «lo prese in disparte, lontano dalla folla», dice il testo. Crea una relazione con il sordomuto, così ci spinge a creare sempre una relazione con il paziente; a prenderlo in disparte, ovvero a porre le condizioni perché il malato, sottratto all’anonimato della folla che spesso invade i nostri ospedali, gli ambulatori, i vari presidi sanitari, si senta avvicinato personalmente e libero di manifestare con fiducia il proprio vissuto integrale, la propria storia. Quanto è importante questa relazione, che poi consente una vera comunicazione! Quanto è importante saper trasmettere, all’interno di un tale rapporto umano, ogni dettaglio richiesto dalla professionalità del rapporto medico-paziente! Una relazione che, sia pure in modo diverso, deve completarsi nella relazione con i familiari, con chi si prende cura, per responsabilizzare, incoraggiare, sostenere.

A questo punto, Gesù può curare. Ed Egli cura toccando, senza aver paura delle contaminazioni, fortemente bandite dalla cultura del tempo; cura accarezzando, potremmo dire. Come non vedere qui i vostri gesti di coraggio e tenerezza, spesso incuranti dei rischi? Pensiamo solo all’esperienza del Covid, che tante vittime ha mietuto tra i sanitari proprio a motivo del contagio da parte dei malati; e pensiamo alla prontezza della Sanità Militare nel soccorrere i fratelli in tragedie, guerre e calamità naturali che espongono anche voi al pericolo. In questo momento, ricordiamo con commozione e preghiera di supplica le vittime e i superstiti del terribile sisma che ha colpito Turchia e Siria, dove i nostri militari sono già presenti. Sì, la cura è sempre cura della persona, in tutto e fino alla fine, anche quando le terapie non possono più funzionare. Penso al sollievo che assicurate nelle fasi terminali di malattia, anche con l’ausilio delle cosiddette “cure palliative”, arginando così una cultura che ha paura di contaminarsi con la realtà della sofferenza e della morte e che sempre più va verso la deriva eutanasica, sconfitta inammissibile per la scienza e la vocazione medica.

Gesù, dunque, non solo cura il sordomuto ma lo solleva, restituendogli la capacità di ascoltare e di parlare. Non ne silenzia il dolore, piuttosto lo accoglie e lo fa proprio; al contempo, libera l’infermo dall’emarginazione in cui la sua condizione di incomunicabilità con gli altri lo aveva posto, restituendogli piena dignità. Il riconoscimento di tale dignità è un’azione che ripristina il ruolo sociale del malato, in qualunque condizione o fase della malattia egli si trovi; ed è anch’essa, potremmo dire, un’azione “sinodale”. «La Giornata Mondiale del Malato, in effetti, non invita soltanto alla preghiera e alla prossimità verso i sofferenti – scrive ancora Francesco nel suo Messaggio -; essa, nello stesso tempo, mira a sensibilizzare il popolo di Dio, le istituzioni sanitarie e la società civile a un nuovo modo di avanzare insieme»[4].

Grazie, allora. Grazie perché in voi c’è carità e sinodalità, nel lavoro interdisciplinare e nel vostro essere comunità capace di collaborazione: con la comunità militare, con le famiglie dei militari, con la Chiesa dell’Ordinariato Militare.

Grazie perché questa sinodalità nei confronti del malato può diventare modello anche per la comunità civile, spingendo a decisioni politiche, sociali, economiche che tengano sempre al centro i più fragili, e che permettano di fermarsi e avvicinarli, per curarli e sollevarli.

E grazie perché, così, voi siete strumenti di consolazione e speranza; come la Madre del Cielo, la Vergine di Lourdes, che su tutti continua a seminare consolazione e speranza, riempiendo di amore sovrabbondante ogni dolore umano.

Lei vi protegga sempre. E così sia!

Santo Marcianò

 

Gn 3,1-8

Sal 31 (32) R. Beato l’uomo a cui è tolta la colpa.

Mc 7,31-37

[1] [1] Francesco, Messaggio per la XXXI Giornata Mondiale del Malato, 11 febbraio 2023

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem