Nota a margine del terzo giorno di esercizi dei cappellani militari

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“La Basilica dell’Annunciazione: grembo della Redenzione” (Ordinario Militare)
(19-04-2016) Anche i cappellani militari, accompagnati dall’Arcivescovo, come i pellegrini di ogni tempo provenienti da ogni dove, -che si sono messi in cammino per venerare le “reliquie di pietra”, e contemplare con gli occhi della fede il mistero dell’Incarnazione-, hanno potuto “toccare e vedere”, l’umile dimora, dove tutto ha avuto inizio. Qui (hic), come ama ripetere mons. Marciano’, il messaggero di Dio ha dialogato con una ragazza d’Israele, figlia del popolo, chiedendogli di diventare la Madre del Messia d’Israele. Da quel momento, spiega mons. Frisina,“la storia del mondo è cambiata per sempre”. La Grotta di Nazaret è testimone dell’esatto luogo in cui i fatti evangelici si svolsero: qui la Vergine Maria udì le parole dell’Annuncio; qui pronunciò il fiat; qui il Verbo si fece carne; qui la purezza e la verginità si fusero con la maternità, rimanendo intatte. In questo lembo di terra, commenta don Marco, “colui che i cieli non potevano contenere, si è  fatto piccolo per entrare nel grembo di una donna”. 
 
La Grotta venerata ha subito molte modifiche nelle diverse epoche, al fine di garantire la possibilità di visitare il Luogo e di celebrarvi il culto. Oggi appare come una piccola cappella rupestre, composta in parte da roccia naturale e in parte da muratura. Entrando è possibile scorgere ciò che rimane della roccia naturale che formava la stanza, insieme a sezioni in muratura in parte ricostruite in una luminosa pietra bianca. In età crociata, fu isolata e ritagliata esternamente, per permetterne l’inserimento nel nuovo edificio sacro; anche parte della volta, probabilmente crollata, risulta essere stata sostituita con muratura. Per sostenere il pilastro che fu costruito sopra la Grotta, vennero inserite tre colonne: due sono visibili a sinistra, all’esterno del nuovo muro e una, rotta e sospesa, all’interno. La colonna più grande fra le due esterne è quella che i pellegrini medievali chiamavano “dell’Angelo”; quella spaccata, all’interno, era chiamata “della Vergine”, perché si riteneva che indicasse il punto preciso in cui Maria sedette durante l’Annunciazione.
 
Dinanzi al mistero dell’Incarnazione, i presbiteri hanno sostato in preghiera, con le parole che gli aveva rivolto l’Angelo Gabriele: “ave o Maria piena di grazia il Signore è con te…”. A termine, nel canto abbiamo invocato la Vergine, come guida sicura nel cammino verso il Signore. A Lei, paradiso mistico e fonte sigillata, in cui esulta tutta la creazione, affidiamo il ministero dei sacerdoti cappellani militari, e di tutti i ministri della Chiesa, affinché possano sempre rispondere generosamente alla chiamata di Dio, ed essere per gli uomini strumenti della sua divina misericordia. 
 
 
“Il Signore ci ha scelti, per essere Lui” (Mons. Frisina)
 
E fu sera e fu mattino, terzo giorno. Per i cappellani militari accompagnati dal loro pastore, mons. Marciano’ è giunto il momento di “andare sul monte”, per ascoltare la voce del maestro. Gesù un giorno aveva preso con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e salito sul un luogo solitario e silenzioso, si trasfigurò davanti ai loro occhi. La bellezza del Signore, ha affascinato i discepoli, tanto che Pietro voleva rimanere li. Ma il Cristo, ha altri progetti: bisogna scendere a valle per continuare ad annunciare il regno di Dio. 
 
Come si fa ad essere così sicuri allora che il monte della trasfigurazione é proprio il Tabor? Gli indizi sono vari e di diverso tipo. I primi cristiani della Palestina, fin dai primi secoli avevano precisato questa montagna identificandola con il monte Tabor. In uno dei tanti testi apocrifi, risalente al II-III secolo d.C., riguardante l’ assunzione al cielo di Maria, troviamo narrato che quando fu giunta l’ora dell’ assunzione al cielo di Maria, Gesù scese dall’alto insieme ad uno stuolo di angeli emanando una luce fortissima e un soave profumo proprio come era successo quando si era trasfigurato in presenza dei discepoli sul monte Tabor. Anche nell’Apocalisse apocrifa di Giovanni il Teologo, troviamo un riferimento esplicito allo svolgimento della trasfigurazione di Gesù sul citato monte.
 
Entriamo nella basilica, costruita in quel punto dove è avvenuto l’evento straordinario narrato. Ad attenderci, Gesù trasfigurato, che come ha fatto con i discepoli di allora, vuole ancora continuare a parlare agli apostoli di questo tempo. Come sempre, ci introduce nella meditazione, mons. Frisina: “siamo in un luogo di grande suggestione. La luce è la protagonista della nostra giornata che è la primogenita della creazione. Senza di essa il mondo che vediamo non sarebbe lo stesso. Cosa significa vedere? Noi siamo abituati fin da piccoli ad avere il dono della vista. Proviamo per un attimo a pensare a chi è nato cieco. Quanto è terribile non vedere! Essere privati della luce, è una delle esperienze più difficili da vivere. C’è però un modo di vedere che non parte dal cervello o dagli occhi. Cosa c’è dentro di noi che ci fa vedere? È l’esperienza del cuore, cioè vedere al di là dell’apparenza. Si possono vedere con il cuore gli abissi più profondi che nessuno sguardo fisico potrà mai penetrare. Ricordiamo a tal proposito la prima lettera di Giovanni: “ciò che i nostri occhi hanno visto, ciò che i nostri orecchi hanno ascoltato, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, noi lo annunciamo a voi”. Quanto l’evangelista testimonia (che in greco si traduce martiuria), è un richiamo forte all’esperienza interiore. Giovanni riconosce sempre in Gesù, quel Verbo che è nascosto. Questa capacità contemplativa, si esercita soprattutto nella preghiera. Siamo in un luogo, che nella spiritualità della Chiesa, invita alla preghiera. 
 
Nel racconto della trasfigurazione, -continua don Marco-, Gesù va a pregare con i tre discepoli su cui Lui stesso appoggia tutta la sua rivelazione. Li conduce sul monte. Mentre prega, cambia aspetto, si trasfigura. È la manifestazione del Signore, non più nell’umiliazione della carne, ma nella gloria di Dio. Pietro vedendo il maestro trasfigurato, come sempre chiede in modo inappropriato, di rimanere insieme a Mosè e ad Elia. I due personaggi, rappresentano la legge ed i profeti. Ma anche coloro che non sono morti. Sono due figure metaforicamente a metà strada, tra cielo e terra. Questa realtà straordinaria della rivelazione, si manifesta come un crinale. Da li in poi, Gesù si dirige decisamente verso Gerusalemme. Il maestro vuole insegnare ai discepoli come guardare gli eventi. E quell’ascoltare la voce di Dio che si manifesta in quel momento diventa l’elemento decisivo della sequela. Di cosa parlavano Mosè ed Elia con Gesù? Dice letteralmente Luca, dell’esodo verso Gerusalemme. Il passaggio da questo mondo al Padre. Pietro si ferma all’emozione del momento. Sinceramente ed immediatamente, aderisce al mistero. Ma ancora non ha la forza necessaria di essere coerente alla missione che lo ha avvolto. I discepoli rimangono abbagliati dalla bellezza della rivelazione. Il Signore vuole far capire, che tutto questo non è necessario realizzarlo sul Tabor. Infatti, subito dopo, non videro che “Gesù solo”. L’esperienza che hanno fatto, era tutta costruita per far capire che “Gesù solo” era da guardare. 
 
I nostri sensi spirituali, devono aprirsi, e vedere la realtà attraverso Cristo, afferma mons. Frisina. Giovanni capirà tutto ciò e lo trasmettera’ nei suoi scritti. Nell’Apocalisse, scrive l’esperienza della persecuzione di Domiziano. Un momento storico terribile per le comunità cristiane. Nel suo sorgere la comunità comincia ad essere perseguitata. Non solo dall’esterno, ma anche dall’interno: le eresie, le divisioni, le incomprensioni. Gesù, sembra un evento lontano. La persecuzione sta mettendo in dubbio la predicazione. La fede diventa sofferenza. Nell’Apocalisse ci sono delle parole chiare come testimonianza, pazienza, che è la resistenza nella prova, da cui non è possibile prescindere. Poi, Giovanni cerca di rivelare a tutte le Chiese la presenza del Risorto, che lui chiama l’agnello immolato. Perché questa immagine è protagonista della visione? L’agnello rappresenta la chiave per capire la storia. Un’altra parola che ritorna sempre: vidi.  Ma cosa “vidi?”. Sicuramente si tratta di un accumulo di visioni del cuore che annunciano la manifestazione finale del Signore. Tutto avviene in una Domenica. Durante la messa. Giovanni sente la responsabilità sulle Chiese. Vuole dire a tutti che la presenza del Risorto, si deve contemplare e vedere, nella realtà concreta della Chiesa. 
 
Don Marco, pone i seguenti interrogativi: Come stanno i nostri sensi spirituali? Quando noi sacerdoti celebriamo la Messa, cosa pensiamo? Soprattutto cosa vediamo? Quando noi assolviamo, cosa vediamo? Quando pensiamo a noi stessi, cosa vediamo? Quando ci guardiamo allo specchio, cosa vediamo? La fede è la visione di ciò che non si vede. Chi siamo veramente? Già dal battesimo la configurazione a Cristo, è diventata una priorità imprescindibile nel cammino verso il Regno. Ricevendo il sacramento dell’ordine, siamo stati marchiati, sigillati dal fuoco dello Spirito Santo. Solo Cristo conosce questo sigillo, perché la sua immagine è sigillata in noi. Siamo stati scelti per rendere i fratelli idonei al ministero, dice san Paolo. Scelti per aiutarli, e non per allontanarli. Ogni prete ha il compito di pascere gli agnelli per farli crescere, condurli e custodirli, non per un dovere ma per la configurazione che abbiamo ricevuto nel giorno dell’ordinazione. Se facciamo vivere in noi il Signore, riusciamo a superare la nostra miseria e inconsistenza. Il maestro ci ha scelti per essere Lui.
 
Noi sacerdoti, abbiamo la possibilità di vedere l’anima del prossimo. Abituarsi a vedere l’anima della gente. A vedere quando arriva un peccatore a confessarsi, con tutta la sofferenza del caso, e che attende il perdono. L’anima si vede, e si ama con il cuore. Bisogna però imparare ad uscire da quello che noi vogliamo vedere. Quando Gesù incontra il giovane ricco, dice Marco, che comincia a guardarlo in profondità. L’uomo attende di essere capito. Come l’agnello che trascina con sé i centoquarantaquattromila, divenendo pastore. Come guardiamo il mondo è la storia? Innanzitutto attraverso questo agnello che spezza i sigilli della storia per farci capire che tutto ciò che ci circonda, deve essere orientato verso di Lui. Noi dobbiamo guardare la storia come il luogo dove si realizza la salvezza di Dio. Dunque, dobbiamo avere i suoi occhi. Tante volte ci lasciamo ingannare dalle lusinghe del peccato. Il Signore vede la distruzione e vuole ricostruire. Lui vuole reintegrare ciò chè è perduto. Alla fine, il giudizio di Dio, sarà sull’amore. Contemplare, significa andare oltre tutte le apparenze. Chi abbraccia il nemico, non è un matto, ma un seguace autentico del Signore. Dio non è Zeus. Sul trono c’è l’agnello immolato. Noi non possiamo inventarci altre divinità. Gesù ci insegna tutto questo perché ci ama e vuole la nostra salvezza.  
 
Don Salvatore Lazzara