(08-07-2020) Pubblichiamo il testo dell’omelia pronunciata dall’Ordinario sabato sera nella cattedrale di Ascoli Piceno durante la celebrazione per il conferimento del diaconato permanente al militare Giuseppe Golia.
Carissimi, la Parola che ci introduce nella Celebrazione e ci offre il criterio interpretativo della Liturgia che stiamo vivendo è quella che Gesù pronuncia all’inizio del brano che abbiamo ascoltato (Mt 11,25-30), uno dei più belli e intensi del Vangelo di Matteo: «Padre»!
Gesù rende lode al Padre.
Gesù ci spiega il suo rapporto con il Padre.
Gesù ci rivela il Padre.
E ci dice che, per accogliere questa Rivelazione, letteralmente questa «apocalisse», non occorre essere sapienti o intelligenti ma figli, bambini sulle ginocchia di un papà. È la particolare «sapienza» che siamo chiamati ad apprendere, sapienza necessaria a esercitare ogni ministero, anche il diaconato permanete, cui oggi viene chiamato il militare Giuseppe Golia.
Gesù rende lode al Padre.
Come Lui, vogliamo che anche per noi il primo passo sia sempre la lode. Rendere lode al Padre per quanto avviene. La Liturgia è anzitutto questo: Mistero di lode pura e purificante, gratuita e grata.
Quale dono saper lodare il Signore per le piccole cose, per quelle più grandi, per quelle più difficili… La lode ci fa entrare nella preghiera stessa di Gesù; ci fa dire, come Egli dice, «tutto mi è stato dato dal Padre mio»!
La lode nasce da questo: dalla consapevolezza che tutto è dono, che nulla ci è dovuto eppure che ci troviamo, giorno per giorno, istante per istante, destinatari di qualcosa che ci supera e ci sorprende, a partire dal dono stesso della vita.
La cultura del nostro tempo, concentrata com’è sui diritti – che troppo spesso, però, sono piuttosto pretese e pretendono di affermare le pretese dei potenti, manipolare le leggi, stravolgere la stessa antropologia -, ha smarrito il senso del dono e, di conseguenza, della gratuità e del servizio.
Il ministero diaconale, al contrario, attinge la sua ragion d’essere proprio nella lode, è radicato nella gratuità di chi risponde, servendo, alla chiamata di quel Dio che ci serve donandosi a noi.
Servire è donare, cari amici, è donare se stessi; lo comprende bene un militare che nel dono si sé per il proprio paese e per la propria gente è chiamato e comprendere la propria missione; lo ha compreso Giuseppe che nella vita militare e familiare ha scoperto la sua vocazione: ma la grammatica di tale dono si apprende nella lode e nella benedizione, il cui oggetto non è ciò che Dio dona, non sono i Suoi doni – seppur meravigliosi e preziosi – ma è il Dio che “si dona”: è Dio stesso!
Nato da questa consapevolezza, il dono di sé cui tutti siamo chiamati, in particolare il diacono, non solo si colloca sulla scia della lode, ma diventa un richiamo alla lode, soprattutto per chi, nella Chiesa, riceve il ministero di amministrare i sacramenti per la santificazione del popolo di Dio.
Dentro l’unico sacerdozio di Cristo, dentro il Mistero stesso del sacerdozio, vissuto anche nella dimensione familiare, il servizio è sostanziale: è l’altro volto della lode. È servizio a Cristo che diventa lode al Padre.
Gesù ci spiega il suo rapporto con il Padre.
Il Figlio è Colui che «conosce» il Padre; il Padre, Colui che «conosce» il Figlio. Siamo invitati a entrare in questo rapporto di reciproca conoscenza che, nella Bibbia, significa intimità. Siamo invitati, in un certo senso, a entrare nell’intimità tra Padre e Figlio.
Il segreto del servire è proprio lì: nell’Amore che li unisce, lo Spirito Santo, il quale, per Sua natura è Amore che si dona.
Il Figlio conosce il Padre e il Padre il Figlio. E noi, chiamati a entrare in questa conoscenza, siamo anche mandati a «conoscere» coloro che dobbiamo servire.
Sì, mandati a conoscere i bisogni dell’umanità ferita, le solitudini del mondo, le sofferenze nascoste e quelle evidenti, lo scarto e l’abbandono, le piaghe di tanti nostri fratelli e sorelle…
Il diacono, mi verrebbe di dire, è colui che «conosce» le povertà della gente, quelle concrete delle persone che gli stanno attorno, quelle che Gesù conosce e affida alla nostra conoscenza; il diacono è colui che, vivendo in intimità con Cristo, entra nell’intimità del Suo amore per gli uomini, del Suo Amore che si dona agli uomini.
Donarsi, in fondo, e lo comprendono bene gli sposi, significa uscire da se stessi per entrare nell’altro. Così, per conoscere Dio e il Figlio di Dio bisogna, come ha fatto San Tommaso, uscire da se stessi ed entrare nelle piaghe di Gesù, presenti e sanguinanti nei piagati della storia.
Quante piaghe nel mondo: le piaghe della povertà, della guerra, delle malattie, della violenza verso i bambini, le donne, gli uomini, il creato! Quante piaghe nel tempo di sofferenza che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo a causa della pandemia! Quante piaghe abbiamo contemplato, quante nuove piaghe abbiamo conosciuto! Quante ne hanno visto, toccato, curato, non solo tanti medici e infermieri ma anche i nostri militari! E quante volte proprio il loro servizio è, in modo inatteso, diventato una goccia di guarigione o di consolazione!
Entrare nella conoscenza del Padre e del Figlio è entrare in quella «sapienza» che Dio non dona ai sapienti del mondo ma a coloro che sono sapienti come Lui, che è la stessa Sapienza del Padre. Questa è la sapienza necessaria al diacono.
Gesù ci rivela il Padre.
E lo rivela, appunto, a coloro che sono sapienti come Egli è. Lo rivela, così come il Padre si rivela, essenzialmente ai piccoli. La parola greca – népios – indica i piccoli di età, i bambini, che, nella cultura ebraica, erano considerati veramente incapaci di capire.
Il Padre si rivela e Gesù rivela il Padre a coloro che, essendo piccoli, possono essere e sentirsi figli. Nella logica dell’Amore, cioè, i veri «sapienti» sono coloro che forse non sanno ancora parlare, come i bambini e i neonati, ma sono disposti a «imparare».
«Imparate da me», dice infatti il Cristo, spiegandoci che la chiave per entrare nella rivelazione del Padre è il Suo Cuore. Un Cuore «mite e umile». E’ questo il cuore del diacono.
È la mitezza e umiltà illustrata dal profeta Zaccaria nella prima Lettura (Zc 9,9-10), secondo la quale – questo certamente ci colpisce – il Messia ha il potere di far sparire le guerre e dominerà il mondo attraverso la pace, nella pace. Parole che ci fanno pensare anche alla beatitudine che Gesù riserva ai «miti» i quali «erediteranno la terra».
«Allora il mite è colui che “eredita” il più sublime dei territori – commenta Papa Francesco -. Non è un codardo, un “fiacco” che si trova una morale di ripiego per restare fuori dai problemi. Tutt’altro! È una persona che ha ricevuto un’eredità e non la vuole disperdere. Il mite non è un accomodante ma è il discepolo di Cristo che ha imparato a difendere ben altra terra. Lui difende la sua pace, difende il suo rapporto con Dio, difende i suoi doni, i doni di Dio, custodendo la misericordia, la fraternità, la fiducia, la speranza. Perché le persone miti sono persone misericordiose, fraterne, fiduciose e persone con speranza»[1]. Papa Francesco sembra fare una descrizione del ministero diaconale.
Cari amici, di questa speranza hanno bisogno gli ultimi della storia, coloro che sono «stanchi e oppressi», dice Gesù, e che non possono trovare ristoro se non in Lui.
Di questa mitezza e umiltà hanno bisogno i diaconi e abbiamo bisogno noi, chiamati a servire in Cristo e nel Suo Nome; e a farlo certi che questo – il servizio d’amore – è il vero riposo, il ristoro che libera dalla stanchezza e dall’oppressione, perché ci aiuta a uscire da noi stessi per entrare nell’intimità dell’Amore di Dio per cantare, con gioia e gratitudine, la lode dei piccoli, dei figli che tutto hanno ricevuto dal Padre.
Auguri, caro Giuseppe, sii diacono così. E così sia.
Santo Marcianò
Arcivescovo Ordinario militare per l’Italia
[1] Francesco, Udienza Generale, 19 febbraio 2020