Cappellani militari: un ministero di “presenza” fra l’Italia e le missioni internazionali

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(24-02-2023) Abbiamo raggiunto telefonicamente don Bruno Mollicone, cappellano militare originario dell’Arcidiocesi di Gorizia, che ora si trova in Iraq, ad Erbil, dove presta il servizio di assistenza spirituale nell’ambito dell’operazione Prima Parthica. Gli abbiamo chiesto cosa significhi essere un “sacerdote in mimetica” in una missione all’estero e quali siano le peculiarità sociali ed ecclesiali del Paese in cui si trova.

 

Don Bruno, tu sei un sacerdote diocesano attualmente in servizio presso l’Ordinariato Militare per l’Italia. Vuoi ricordarci brevemente quali sono stati i passi del tuo cammino formativo e presbiterale che ti hanno condotto su questa strada?

Nella Chiesa di Gorizia ho ricevuto il mio Battesimo: per la precisione a Gradisca, dove all’epoca abitavano i miei genitori. Mio papà era infatti di Sagrado. Poi ci trasferimmo a Cormons e successivamente a Cividale. Per quanto riguarda la mia formazione devo tutto al Seminario dell’Ordinariato Militare, che mi ha offerto la possibilità di prepararmi al sacerdozio a Roma, nel cuore della Cristianità, a contatto con seminaristi provenienti da tutto il mondo. Ma anche i primi anni di servizio pastorale, vissuti fra la parrocchia di Cervignano e l’Arcivescovado di Gorizia, sono stati fondamentali in termini di esperienza, oltre che bellissimi sotto il profilo umano.

 

 Cosa caratterizza in particolare il ministero del cappellano militare?

Il nostro è innanzitutto un ministero di “presenza”. Essere presenti sempre, condividere le tante e varie situazioni che la vita e la professione militare portano con sé. Gioire con chi gioisce e piangere con chi è nel pianto, mutuando un’espressione della Lettera ai Romani. Creare cioè un’empatia sincera con chi ci sta di fronte. E ascoltare, ascoltare tanto ancor prima di parlare. Mai giudicare, soprattutto se giudicare significa mettere una X su una persona. Perché nella vita prima o poi sbagliamo tutti ed è successo anche a me. Al tempo stesso, però, non dobbiamo venir meno al dovere di indicare sempre, con chiarezza e delicatezza, il vero, il buono e il bello. I militari, e fra questi anche molti non credenti, cercano tantissimo il cappellano e lo cercano soprattutto in alcuni momenti forti della vita. Sanno di potersi fidare. Cercano un prete che voglia ascoltarli e parlare con loro, un prete che accolga il loro vissuto con gentilezza, non con un indice puntato. E ben venga se quel prete indossa una mimetica come loro, ma non cercano un compagnone… cercano un prete. E talvolta accade che quel prete, dopo un po’, diventi anche un amico.

 

 Il cappellano militare può operare in molteplici contesti e uno di questi è l’assistenza ai reparti operativi all’estero. Per te non è la prima volta. Da quanto tempo ti trovi in Iraq e com’è strutturata la missione italiana?

In Iraq ero già stato nel 2018. All’epoca mi trovavo a Baghdad, mentre ora, da alcuni mesi, sono nel nord del Paese, a Erbil, che è il capoluogo della regione autonoma del Kurdistan. In linea d’aria siamo a circa 150 km dal confine iraniano e da quello turco. Si tratta di un’area estremamente importante sotto il profilo geopolitico e con una specifica identità linguistica, sociale e culturale. A livello militare l’Italia e le altre nazioni che sono presenti in Kurdistan, così come nel resto del Paese, cooperano con le autorità locali su vari aspetti legati alla sicurezza dello Stato.

Nel 2014, infatti, a seguito della pericolosa e tragica espansione del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) e della richiesta di soccorso avanzata dall’Iraq, venne creata una coalizione multinazionale che è tuttora operante e comprende oltre 80 nazioni e 5 organizzazioni internazionali.

 

Il teatro operativo dove presti servizio è caratterizzato, come accennavi, da una forte presenza internazionale. Ci sono anche militari di altre confessioni cristiane o di altre religioni? E hanno i loro cappellani? C’è dialogo e collaborazione fra voi?

In Iraq c’è veramente un’interessante porzione di mondo. Pensa che ci sono anche i nostri vicini sloveni, seppur in numero molto piccolo. Fino a poche settimane fa ce n’era uno che veniva ogni domenica alla Messa italiana e con il quale siamo diventati veramente amici. Sono sensazioni che, probabilmente, solo noi italiani di confine possiamo capire: vedi un militare sloveno in Iraq, gli dici “Dober dan!” (buongiorno), lui ti guarda stupito, intuisce che probabilmente sei goriziano, triestino o comunque del confine… e praticamente due minuti dopo stai già parlando di “casa” davanti a un caffè in un misto di Italiano, Sloveno e Inglese. Bellissimo! Tra parentesi, anche l’attuale nunzio apostolico in Iraq, cioè l’ambasciatore del Papa, è uno sloveno: Mons. Mitja Leskovar.

Per rispondere alla tua domanda sulle altre confessioni cristiane o religioni presenti fra i militari in Iraq ti confermo che la situazione è esattamente come l’hai descritta: c’è una grande pluralità, anche se in buona parte si rimane prevalentemente in ambito cristiano. Fra i cappellani si respira un forte spirito ecumenico e di collaborazione. Del resto, siamo tutti qui per lo stesso motivo: servire i nostri uomini e ricordar loro quanto sia importante guardare il Cielo.

 

Questa tua ultima espressione mi fa tornare in mente ciò che disse Papa Francesco due anni fa proprio in Iraq, durante l’incontro interreligioso che si tenne presso la Piana di Ur, la città che secondo la tradizione biblica è la patria di Abramo e quindi del monoteismo: «Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo». Dopo tanta violenza e spargimento di sangue, la visita del Papa ha lasciato qualche traccia?

La visita del Santo Padre ha lasciato tracce importantissime soprattutto in termini di fiducia e speranza. Ha ribadito che i Cristiani sono e vogliono essere parte integrante della società irachena e, in quanto cittadini iracheni, lavorare anch’essi per lo sviluppo del Paese. Al tempo stesso chiedono il pieno rispetto della propria dignità e identità spirituale. Un Iraq che perdesse la sua componente cristiana, che oggi è già fortemente minoritaria, sarebbe un Iraq più povero.

 

In Iraq vi è una comunità cattolica di antica tradizione: la Chiesa Caldea, la cui sede patriarcale è a Baghdad. Si tratta di una Chiesa che, negli ultimi decenni, è stata ferita dalla guerra. Come hanno affrontato questi eventi i cristiani iracheni?

Li hanno affrontati con fede. Diciamola tutta… Hanno affrontato con fede ciò che, negli anni dell’ISIS, è stato a tutti gli effetti un martirio. Come sai, il significato della parola martirio, nell’originale greco, è testimonianza. I cristiani caldei, nel periodo dell’ISIS, sono stati autentici martiri: martiri nella testimonianza coraggiosa della fede e martiri, in molti casi, anche nell’effusione del sangue. I cristiani d’Iraq, e non solo loro, oggi rappresentano un monito e un esempio soprattutto per l’Europa che, talvolta, pare voler recidere le sue radici spirituali.

 

A causa della persecuzione molti cristiani sono scappati e si sono rifugiati negli Stati Uniti, in Australia e in Europa. Possiamo dire che si è verificata una vera e propria diaspora. Questo aspetto è percepito dalla Chiesa universale?

L’esodo cristiano dall’Iraq è in realtà molto datato e, al tempo stesso, ancora attuale. In base alle fasi storiche che hanno interessato il Paese, l’emigrazione ha assunto talvolta connotati più di natura economica, altre volte più di natura religiosa. Oggi, in tutto l’Iraq, la presenza cattolico-caldea non supera le 220.000 persone, mentre all’estero ce ne sono più del doppio. Ma c’è un dato che fa davvero riflettere: paradossalmente, la diocesi caldea più grande al mondo per numero di fedeli non si trova in Iraq, ma negli Stati Uniti ed è l’eparchia di Detroit.

La diaspora caldea è un fatto assolutamente noto alla Chiesa e in particolare al Vaticano; talvolta un po’ meno ai singoli fedeli. La Chiesa sta facendo molto, a livello internazionale, per aiutare questi fratelli. Si tratta di progetti importanti, che hanno lo scopo di favorire il più possibile la loro permanenza in questo Paese, in piena armonia con tutte le altre componenti religiose ed etniche.

Anche sotto il profilo etnico, infatti, i Caldei costituiscono una realtà particolarissima, essendo i discendenti della civiltà assiro-babilonese. Sono cittadini iracheni, ma fra di loro e nella liturgia parlano l’Aramaico, non l’Arabo. Oggi poi sono concentrati prevalentemente nella regione autonoma del Kurdistan, ma etnicamente non sono curdi. Rappresentano davvero un unicum sotto molti aspetti.

 

Parlano l’Aramaico, cioè la lingua di Gesù…

Chiaramente lo parlano nella versione moderna. Però ogni volta che chiedo alle suore di Ankawa, il quartiere cristiano di Erbil, di recitarmi il Padre Nostro in Aramaico antico, provo un’emozione fortissima. Perché Gesù, duemila anni fa, lo pronunciò esattamente in quel modo.

L’Iraq è un meraviglioso mosaico di fedi e culture. La gente qui è gentile, vuole la pace. La pace duratura e la prosperità sono a portata di mano e nessuno, anche fra i musulmani, vuole rinunciarvi a causa di qualche minoranza fondamentalista.

 

Puoi farci qualche esempio di aiuti che la Chiesa Italiana sta portando o ha portato all’Iraq?

A tutti i livelli, che si tratti di singole diocesi, Caritas o associazioni, i cattolici italiani hanno un cuore grande. Potrei citarti davvero tanti esempi. Ma lasciami dire che il tratto distintivo di questi aiuti è che essi sono generalmente rivolti a tutti, cristiani e non cristiani. La Chiesa vuole dimostrare coi fatti che un futuro prospero e di convivenza può esserci davvero. Se ad esempio arrivano aiuti per una scuola materna gestita dalle suore, questa sarà ovviamente una scuola cattolica, ma stai sicuro che quella stessa scuola, pur senza rinunciare a nulla della propria identità cattolica, accoglierà tranquillamente anche bambini non cattolici. Questo, qui a Erbil, l’ho visto coi miei occhi. Anche recentemente ho visitato un asilo cristiano dove sapevo che c’era una percentuale di bambini musulmani, iscritti serenamente dalle loro famiglie. Io vedevo semplicemente bambini giocare e ridere assieme. Un giorno quei bambini cresceranno e si ricorderanno di quanto belli siano stati quei momenti, di quanto siano stati bene tutti assieme. E vorranno ricreare quell’armonia anche nella società irachena di domani. Questo è l’orizzonte che già oggi si intravede. I nostri militari sono qui per aiutare le autorità locali a proteggere quell’orizzonte dalle tenebre del fondamentalismo.

 

È vero che, da pochi anni, esiste ad Erbil una vera e propria Università Cattolica?

Sì, dal 2015 per la precisione. È un’istituzione accademica che è stata fortemente sognata, progettata e realizzata dalla Chiesa Caldea. Come Italiani possiamo essere davvero orgogliosi di aver contribuito in maniera determinante alla realizzazione di questo sogno. La Conferenza Episcopale Italiana, grazie ai fondi dell’8 per mille, ha offerto aiuti per 2.300.000 euro e un’ulteriore somma è stata donata per finanziare 50 borse di studio per un intero ciclo accademico. Anche in questo caso, pur essendo dichiaratamente cattolica, l’università è comunque aperta a tutti e posso confermare che fra i quasi 400 studenti attuali ce ne sono anche di musulmani e yazidi, minoranza religiosa, quest’ultima, assai perseguitata negli anni dell’ISIS. L’Arcivescovo di Erbil, Mons. Bashar Matti Warda, tiene moltissimo a questa istituzione e a tutto ciò che, in vario modo, possa favorire l’istruzione e quindi il futuro sociale e professionale dei giovani caldei.

 

Estirpare ogni traccia di violenza e guerra dalla faccia della terra è un sogno tanto ingenuo quanto irreale, data la nostra condizione umana. Si tratta piuttosto, come dice il Concilio Vaticano II, di mitigarne la inumanità. Sempre il Concilio afferma: «Coloro poi che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace» (Gaudium et Spes, 79). C’è nei tuoi militari la coscienza di questo importante compito?

Sai, magari non tutti i militari conoscono questa citazione del Concilio, ma ti garantisco che hanno la piena consapevolezza del suo contenuto. Sono consapevoli di svolgere una missione delicata, che necessita di grande professionalità ed equilibrio. E sono consapevoli di essere veramente fondamentali, in alcuni teatri, per garantire la pace e quindi la vita. Sai quand’è che lo capisco pienamente? Non tanto nei discorsi, che pure si fanno su questi argomenti, quanto piuttosto negli sguardi spontanei che colgo in determinate situazioni. Li vedo aiutare qualcuno, portare un dolcetto a un bambino, e ne osservo gli sguardi. Li vedo gioiosi e orgogliosi, nobilmente orgogliosi di ciò che stanno facendo e consapevoli di quanto importante sia la loro presenza qui.

 

In Afghanistan, dopo 20 anni di presenza militare occidentale, già poco tempo dopo il ritorno del governo talebano, è stato cancellato molto di quel lungo lavoro che era costato tanto sacrificio, anche in termini di vite umane. Come vedi l’Iraq fra 10 anni?

Ciò che sta succedendo in Afghanistan provoca a tutti noi un’immensa amarezza, ma la situazione dell’Iraq non è paragonabile a quella di Kabul. Non credo che questa nazione potrà mai avere un destino di quel tipo. Alla domanda su come vedo l’Iraq fra 10 anni è difficile rispondere in modo preciso, perché purtroppo dobbiamo sempre ricordarci che siamo in Medio Oriente e da queste parti i sogni e i progetti devono spesso fare i conti con l’imprevedibilità degli eventi. Se l’Iraq riuscirà a ritrovare pienamente la stabilità e la concordia garantirà ai suoi figli di non dover cercare altrove la felicità. Come disse il Santo Padre proprio a Ur due anni fa «non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi».

 

Christian Massaro

(articolo pubblicato sul settimanale diocesano Voce Isontina)