Omelia alla Festa S. Giovanni XXIII, patrono dell’Esercito italiano

11-10-2022

Basilica S. Maria in Ara Coeli, 11 ottobre 2022

 

Carissimi fratelli e sorelle,

la Festa di San Giovanni XXIII, Patrono dell’Esercito Italiano, si arricchisce quest’anno di significato: oggi, infatti, ricorre il 60° anniversario dell’inizio del Concilio Ecumenico Vaticano II, data scelta proprio per ricordare Papa Giovanni. Il Concilio è stata una sua intuizione profonda, sentita, concepita «nella mente quasi all’improvviso»[1], come egli stesso ebbe a spiegare, e che ha segnato in modo indelebile quel Pontificato e tutta la vita della Chiesa, in particolare nel rapporto con il mondo e la modernità. E oggi noi vogliamo ricordare Giovanni XXIII rileggendo, nel Concilio, un aspetto del suo grande anelito alla pace.

«Noi chiudiamo una grande giornata di pace… di pace»[2], egli ripeteva la sera dell’undici ottobre 1962 nel cosiddetto “Discorso della luna”, parlando dalla finestra a una Piazza San Pietro gremita di gente e splendente di fiaccole. E nel Discorso di apertura del Concilio, al mattino, in Basilica, aveva individuato nella pace il frutto della missione d’amore affidata alla Chiesa, che «per mezzo dei suoi figli manifesta ovunque la grandezza della carità cristiana, di cui null’altro è più valido per estirpare i semi delle discordie, nulla più efficace per favorire la concordia, la giusta pace e l’unione fraterna di tutti»[3].

Sessanta anni dopo, riascoltiamo tali parole non senza trepidazione, forse tentati di scoraggiamento. I venti di guerra soffiano su gran parte del pianeta, persino sulla nostra Europa, riproponendo in parte la prospettiva di quel tempo: anche allora tanti conflitti, anche allora la minaccia della guerra nucleare, come ha ricordato Papa Francesco all’Angelus domenica scorsa[4]. Eppure, Giovanni XXIII continuava a fidarsi degli uomini. «Essi – diceva – sono sempre più consapevoli che la dignità della persona umana e la sua naturale perfezione è questione di grande importanza» e «hanno imparato con l’esperienza che la violenza esterna esercitata sugli altri, la potenza delle armi, il predominio politico non bastano assolutamente a risolvere per il meglio i problemi gravissimi che li tormentano»[5].

Celebrare l’Eucaristia vuol dire entrare in questa fiducia, nonostante il tempo che stiamo vivendo; e non in modo ingenuo, superficiale, con un ottimismo ingiustificato, ma con la consapevolezza di fede del salmista: «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla… anche se vado per una valle oscura tu sei con me» (Salmo 22 [23]). Celebrare l’Eucaristia significa credere nella Presenza viva di Gesù, Signore della storia, Vivo e operante nella storia; Pastore che, da una parte, assicura i pascoli per nutrirci, dall’altra, esercita la missione di guida, conduce nel cammino.

Sono le due sfumature del verbo «pascere» che Gesù utilizza nel Vangelo (Gv 21, 15-17), affidando a Pietro il Suo stesso compito. La missione del pastore, dunque, è posta nelle mani degli uomini; e, per fare quanto il Signore chiede, Pietro, come ogni persona che riceva un mandato analogo, dovrà provvedere ai pascoli e guidare. In una parola, saper “governare”.

Governare (dal verbo greco cubernào) significa “reggere il timone”, esercitare un comando. Penso a quanti tra voi, militari dell’Esercito Italiano, hanno incarichi di guida, comando, ma anche di obbedienza, per esercitare la quale è necessario saper governare se stessi. E penso a chi è chiamato alla missione di governare svolgendo compiti istituzionali a livello locale, nazionale e internazionale, con un risvolto importante per la pace, nei diversi luoghi del mondo. La figura del pastore costituisce una preziosa chiave di lettura, per decifrare tali delicatissimi compiti a servizio della persona, della comunità, della pace.

Da una parte, governare è assicurare i pascoli, il porto sicuro. È promuovere il bene, a cominciare da beni essenziali quali la vita, il cibo, il lavoro, fino a beni più alti ai quali la dignità umana rimanda, come la libertà religiosa o educativa. Non vi è giustizia se non si assicurano alla persona i beni primari, dice la dottrina sociale della Chiesa; ma «tale dottrina – spiega Giovanni XXIII additando un “di più” – abbraccia l’uomo integrale, composto di anima e di corpo, e a noi, che abitiamo su questa terra, comanda di tendere come pellegrini alla patria celeste»[6].

Governare significa poi guidare il cammino, partendo da una rotta da seguire, da un percorso stabilito, da un incarico affidato. Tutti i ruoli militari, non solo quelli di comando, fanno riferimento a un piano dal quale non ci si può scostare a proprio piacimento; tutte le responsabilità di guida e governo – in famiglia, nelle comunità, in ambito civile e politico – riconoscono un progetto a cui ispirarsi e aderire. L’ordine che diamo, a cui obbediamo, che siamo chiamati a mantenere, è riflesso di un ordine più ampio, che ci precede, e che la fede riconosce nel Signore della storia: «o gli uomini aderiscono a lui e alla sua Chiesa, e godono della luce, della bontà, del giusto ordine e del bene della pace», diceva Papa Giovanni, oppure «tra loro c’è confusione, le mutue relazioni diventano difficili, incombe il pericolo di guerre sanguinose»[7].

Ma il pastore, colui che governa, non guida solo la singola persona; conduce un «gregge», un «popolo», abbiamo ascoltato dalla prima Lettura (Ez 34,11-16): in esso c’è la pecora «perduta», «smarrita», «ferita», «malata»; e ci sono gli «agnelli», dice Gesù a Pietro, cioè i più piccoli. Ecco, il popolo è tutta la comunità umana, senza scarti di nessuna natura: non ci sono stranieri da respingere né bambini da rifiutare prima di nascere; non ci sono malati da eliminare o poveri da lasciar morire di fame… Il pascolo è per tutti, il bene è «comune»! E per tutti ci sarà il bene del cibo, dell’accoglienza, della cura e, prima di tutto, della vita, se si segue la rotta indicata da Giovanni XXIII: la dignità e l’autentica uguaglianza tra esseri umani. E se si segue la via del camminare insieme.

Sì, la comunione era obiettivo primario del Concilio, è obiettivo del Sinodo che la Chiesa sta celebrando; e dovrebbe essere obiettivo di una giusta politica, quasi una Magna Carta per l’Italia, l’Europa, la comunità internazionale. E la rotta di quella barca sulla quale ci siamo tutti, come spesso ripete Papa Francesco, può essere affrontata solo insieme: la pandemia da Covid lo ha dimostrato, anche se forse, come per la guerra, stiamo dimenticando la lezione della storia…

Cari amici dell’Esercito Italiano, celebrare insieme Papa Giovanni ricorda questa verità, testimoniata dalla vostra capacità di vivere così un servizio che, come quello del pastore, è rivolto a tutti e per tutti sa compromettersi e offrirsi, talora fino alla fine.

Voglio dirvi grazie a nome della Chiesa. E voglio farlo proprio con le parole di Giovanni XXIII quando, al Concilio, si rivolgeva a «coloro, che, pur dedicandosi con tutte le forze alla pratica della perfezione evangelica, danno contemporaneamente il loro contributo al progresso civile, perché dagli esempi della loro vita e dalle loro benefiche iniziative di carità riceve non poco vigore e incremento quanto c’è di più alto e di più nobile nella società umana»[8].

La protezione dell’amato Papa Giovanni vi confermi e sostenga voi, la nostra Nazione, la Chiesa tutta; la sua intercessione ottenga la pace al mondo intero.

E così sia!

Santo Marcianò

[1] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II, Basilica San Pietro, 11 ottobre 1962

[2] Giovanni XXIII, Discorso della luna, Piazza S. Pietro, 11 ottobre 1962

[3] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II

[4] Cfr. Francesco, Preghiera dell’Angelus, domenica 9 ottobre 2022

[5] Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Vaticano II

[6] Ibidem

[7] Ibidem

[8] Ibidem