Omelia alla S. Messa nella giornata del Malato

09-02-2024

Roma, Cappella del Policlinico Militare del Celio, 9 febbraio 2023

La Giornata del Malato ci offre ogni anno quasi una sosta, che voi inserite nella Celebrazione Eucaristica: un grande dono, per il quale io stesso vi ringrazio. Si tratta di una sosta spirituale, che ci obbliga a riflettere sul dono della vita, anche quando questa sia afflitta dalla sofferenza, dalla malattia, dalla morte.

Esperienze che costituiscono la ragion d’essere delle professioni sanitarie. Esperienze nei confronti delle quali occorre certamente lottare, come voi fate, ma che, al contempo, vanno riempite di senso, in quanto sono parte della vita di ogni persona umana.

Un senso che il Papa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale del Malato di quest’anno, sintetizza nella necessità del superamento della solitudine: «Non è  bene che l’uomo sia solo. Curare il malato curando le relazioni», recita infatti il titolo del Messaggio, nel quale si fa riferimento ai due brani biblici che ho voluto proporre come Letture per la nostra Liturgia.

L’essere umano è un essere in relazione. Lo è nella sua struttura, lo è a motivo della sua somiglianza con Dio, lo è come compimento dell’umano.

I versetti del secondo Capitolo della Genesi, che abbiamo ascoltato dalla prima Lettura (Gen 2,7.18-24) e che sono forse tra le pagine più belle di tutta la Bibbia, legano la relazione alla vita: Dio ha posto nell’uomo il Suo stesso soffio vitale, infondendo in lui qualcosa di divino, che lo differenzia dal resto delle creature; e proprio questo principio divino ha bisogno di essere vissuto nella comunione tra Dio e l’uomo ma anche degli uomini tra di loro. Lo ricorda Gesù nel Vangelo (Lc 10,25-37) interrogando il dottore della legge sul fondamento della legge stessa: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso».

Creato a immagine di Dio-Amore e per amore, l’uomo scopre nell’amore il compimento dell’umano: il senso della vita e di tutte le diverse esperienze che la costellano. Dunque anche il senso della malattia. E il senso stesso della relazionalità.

Spesso rischiamo di attribuire al termine relazione un significato generico o prettamente psico-emotivo. Invece, fin dal principio della creazione, Dio pone nel paradigma uomo donna l’esperienza di quell’amore che, sia pure con sfumature diverse, dovrebbe essere il contenuto di tutte le relazioni umane.

Nell’affrontare la solitudine della malattia, tanto da parte del paziente quanto da parte del medico e dei sanitari in genere, entrano in gioco diverse relazioni.

Prima fra tutte, lo abbiamo ripetuto tante volte anche in questa sede, la relazione di cura che vorrei provare a rileggere così: la relazione come cura. «Guardiamo all’icona del Buon Samaritano (cfr Lc 10,25-37), alla sua capacità di rallentare il passo e di farsi prossimo, alla tenerezza con cui lenisce le ferite del fratello che soffre», esorta Papa Francesco.

Quanto è negativa la solitudine che separa medico e paziente! E quanto, al contrario, una buona relazione può contribuire al buon andamento della cura stessa, specie in malattie croniche o particolarmente gravi!

Il «farsi vicino» del buon samaritano è la modalità con cui le ferite dell’uomo sono lenite e continuano a essere lenite. Ed è interessante notare come, in questa relazione che genera cura, il samaritano sappia coinvolgere anche l’albergatore.

A pensarci bene, ciò che fa scuola, in medicina, non è solo la scienza o la tecnica ma lo stile del prendersi cura. Uno stile che mi sembra caratterizzi voi e la sanità militare: stile di collaborazione, confronto, condivisione nel prendere in carico le persone, il che può lenire anche la solitudine dei medici.

Ecco allora che l’altro aspetto della relazionalità nella malattia è la fraternità. Non è bene che l’uomo sia solo perché l’uomo, se lasciato solo, non può varcare la porta del dolore. E tante volte la paura del dolore, della malattia, della morte, altro non è se non angoscia di solitudine – ai nostri tempi peraltro così frequente -, che può alimentare richieste di mettere fine alla vita con l’eutanasia o il suicidio assistito…

Ciò che va assistito, invece, è il malato, anche attraverso una umanizzazione delle strutture e delle procedure sanitarie. Favorire la vicinanza delle persone care, pur con la dovuta organizzazione e prudenza; potenziare, laddove indicato, le terapie domiciliari; rendere più decorosi gli ambienti per rispettare la dignità della persona.

E fraternità significa pure cercare di colmare quel divario tra ricchi e poveri che troppo spesso decide non solo della modalità con cui le cure vengono elargite ma della tempestività e a volte, purtroppo, anche della stessa possibilità di accesso alle cure stesse. Non lo dimenticate: nessuna politica sanitaria può sovrastare quello sguardo di compassione con cui il samaritano guarda all’uomo, senza sapere chi egli sia o cosa possa offrire in cambio, anzi rimettendoci di persona per un puro motivo di amore.

«Ricordiamo questa verità centrale della nostra vita: siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha accolti, siamo fatti per l’amore, siamo chiamati alla comunione e alla fraternità. Questa dimensione del nostro essere ci sostiene soprattutto nel tempo della malattia e della fragilità, ed è la prima terapia che tutti insieme dobbiamo adottare per guarire le malattie della società in cui viviamo», scrive il Papa.

L’amore, dicevamo, è il senso di ogni relazione. E l’amore ci fa capire che l’essere umano è sempre in relazione, anche qualora essa non sia valutabile – come all’inizio della vita e al termine dell’esistenza – o quando la persona sofferente sia considerata un peso da quella società che, in realtà, è la vera malata.

Nel brano evangelico, l’uomo ferito viene definito «mezzo morto». Non si sa se egli fosse cosciente o ridotto in condizioni di disabilità; non si sa neppure se egli sia guarito o meno. Ciò che conta è la compassione, l’amore con cui il samaritano ha saputo vedere in lui il valore della vita, sempre superiore alla qualità della vita; ha saputo vedere in lui quella vita che è degna di essere vissuta, sempre e comunque; ha saputo trattarlo come persona e non lasciarlo solo. Perché l’amore non lascia mai soli!

E c’è un’ultima solitudine la cui importanza, nel tempo della malattia, non sempre è adeguatamente considerata. È la solitudine spirituale; il non tener conto di come la sofferenza possa aprire la mente alle grandi domande e il cuore all’incontro con il Signore.

Secondo alcune interpretazioni, il Buon Samaritano del Vangelo è Gesù stesso; e, se ci pensiamo bene, proprio l’esperienza del dolore crea, nell’uomo ferito, la possibilità di trovare Lui sulla sua strada.

Sì, la sofferenza può essere luogo dell’incontro con Cristo. È una dimensione da non sottovalutare.

Parlando al personale del Presidio Sanitario del Celio, so quanta attenzione venga riservata a lasciare spazio alla cura spirituale e sacramentale dei malati, all’opera dei cappellani militari, che ringrazio con particolare affetto. E questo vale per tutta la Sanità Militare, anche qualora ci si trovi nelle periferie buie delle emergenze o della guerra che, ricorda il Papa, «è la più terribile delle malattie sociali e le persone più fragili ne pagano il prezzo più alto».

Come il Salmista (Salmo 71 [70]), ogni malato si può rivolgere a Dio con toni di supplica, gridando la propria paura di sentirsi abbandonato, ma può poi arrivare ad abbandonarsi con fiducia in Lui che vince ogni solitudine umana, trasformando così anche l’ora del dolore in misterioso canto di Lode.

Il Signore conceda a coloro che soffrono di vincere la solitudine sperimentando la forza di questo amore, anche grazie a voi che, con amore, li accompagnate.

E così sia!

Santo Marcianò

 

PRIMA LETTURA Gen 2,7.18-24

Dal SALMO 71 (70) Sei Tu, Signore, la mia fiducia

VANGELO Lc 10,25-37