Omelia alla S. Messa – Assisi 17 ottobre 2023

17-10-2023

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato (Lc 11,37-41), «Gesù piange su Gerusalemme». Si sta avvicinando alla Città Santa; sta per entravi, entrando nella Sua Passione, Morte e Risurrezione ma, subito prima, la guarda. E ieri abbiamo parlato dello sguardo di Gesù e del nostro sguardo di preti…

L’evangelista Luca, da pittore, dipinge questa scena con sfumature precise, ci fa contemplare il volto di Gesù in modo indimenticabile. Mentre Egli guarda Gerusalemme, i suoi occhi si riempiono di lacrime, ma non ha uno sguardo «immanente» – lo dicevamo. Piange non perché sa che ad attenderlo ci sarà un’indicibile sofferenza, fino alla Croce. Piange «su» Gerusalemme, perché è lei, potremmo dire, ad avere uno sguardo immanente: sono i suoi occhi a «non vedere più quello che porta alla pace». Gerusalemme, in certo senso, ha bisogno di un nuovo sguardo!

Vorrei che ci sintonizzassimo sullo sguardo di Gesù, unendoci, oggi, al Suo pianto su Gerusalemme.

Lo facciamo in comunione con la Chiesa italiana e con le Chiesa di Terra Santa, nella giornata dedicata a una speciale preghiera per la Pace.

Lo facciamo accogliendo questa richiesta di preghiera all’interno dei nostri lavori, direi come “cuore” del Convegno. Noi Chiesa Militare, noi cappellani militari siamo particolarmente chiamati alla pace e alla preghiera per la pace; continuiamo a ripeterlo e a sentire, in questi giorni, l’estremo “peso” – in senso biblico, il “valore” – di una tale responsabilità, proprio dentro lo stesso nostro discernimento sinodale.

E continuando a “discernere” alcuni aspetti del ministero del cappellano militare, vorrei oggi offrirvi un altro passaggio, che ci inserisce nel tema più ampio della preghiera: il silenzio!

 

Ieri: lo sguardo; oggi: il silenzio.

«Il silenzio è importante, è potente: può esprimere un dolore indicibile di fronte alle disgrazie, ma anche, nei momenti di gioia, una letizia che trascende le parole», ha detto Papa Francesco nell’Omelia per la Veglia Ecumenica in preparazione al Sinodo; ha grande «importanza nella vita del credente, nella vita della Chiesa e nel cammino di unità dei cristiani»[1]. E ha grande importanza – aggiungiamo – nella vita di un prete, nella nostra vita sacerdotale.

Un silenzio che, lungi dal creare isolamento, indifferenza, è straordinario strumento di relazione. Ci mette in relazione con Dio, con gli altri, con noi stessi, facendoci crescere da una parte in un’attitudine sinodale, dall’altra in un’attitudine di preghiera.

Nel Sinodo, il silenzio è necessario per l’ascolto. Ma è anche necessario che il silenzio si prolunghi oltre l’ascolto o, forse, che faccia “dilatare” l’ascolto. Ascoltare è accogliere le parole e poi, per così dire, custodirle attraverso l’attesa, la sedimentazione, la riflessione ulteriore: quella modalità che lo stesso evangelista Luca attribuisce alla Madre del Signore la quale, egli dice, «serbava queste cose meditandole nel suo cuore»: è il “siunbàllo”, il «collegare nel cuore».

Il silenzio permette così alle parole di incontrare la memoria, l’intelligenza, la volontà… senza fermarsi a un “udire” meccanico o, peggio, condizionato dalla semplice reazione emotiva, che finirebbe per creare equivoci, incomprensione, odi, conflitti…

Potremmo dire che, come lo sguardo, anche il nostro ascolto non deve essere «immanente»; deve piuttosto cogliere, grazie al silenzio, il senso profondo delle parole, leggervi “oltre”; creare quella «comunicazione fraterna» che fa della Chiesa una comunione in cui – dice ancora il Papa – «lo Spirito Santo armonizza i punti di vista, perché Lui è l’armonia. Essere sinodali vuol dire accoglierci gli uni gli altri così, nella consapevolezza che tutti abbiamo qualcosa da testimoniare e da imparare, mettendoci insieme in ascolto dello “Spirito della verità” (Gv 14,17)»[2].

E ascoltare lo Spirito, nel silenzio, significa pregare.

Il silenzio è parte integrante della preghiera. E oggi noi viviamo una giornata dedicata alla preghiera per la pace, particolarmente per la pace in Terra Santa.

Un silenzio profondo, capace di far sgorgare l’invocazione, la supplica al Signore. «Egli lascia la pace, porta la pace», leggiamo nelle battute conclusive della Pacem in Terris: e «questa è la pace che chiediamo con l’ardente sospiro della nostra preghiera»[3]. Il silenzio è un tale sospiro!

Accanto all’invocazione, però, c’è un altro aspetto della preghiera per la pace: la “contemplazione”, alla quale lo stesso Papa Giovanni, in certo senso, ci indirizza, parlando dell’«ordine stabilito da Dio» che, in modo «stupendo» regna nell’universo e attesta «pure la grandezza dell’uomo»[4].

Ci aiuta, in questa preghiera, il Salmo Responsoriale (Salmo 18 [19]). Un canto della gloria di Dio che risplende nella Creazione, eloquente in se stessa: «senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce». Un canto di silenzio, potremmo dire; di un silenzio fatto di contemplazione e lode!

Pregare per la pace, essere preti che pregano per la pace significa imparare sempre più il linguaggio di questo silenzio, per riconoscere il Creatore e la Sua opera, per riconoscere il “diritto di Dio”.

E la prima Lettura, provvidenzialmente (Rm 1,16-25), ci ripropone la riflessione sull’«ira di Dio» riflessa in quel “limite” che l’uomo, in quanto creatura, non può travalicare, sostituendosi così al Creatore.

Non scaturiscono forse da qui conseguenze tragiche come la guerra, la violenza, la tentazione del farsi giustizia da soli? E non scaturisce da qui l’attacco alla dignità e alla vita degli esseri umani nascosto dietro alcuni cosiddetti «diritti», come la pratica aberrante della maternità surrogata su cui abbiamo riflettuto?

Ogni diritto, secondo la Pacem in Terris, promana dal porre «come fondamento il principio che ogni essere umano è persona»[5]. Pregare per la pace significa anche pregare per questo, lavorare per questo; perché nessuna guerra, violenza, violazione, offuschi la gloria di Dio nell’uomo vivente.

 

Cari amici, Gesù piange su Gerusalemme; ma, dopo il pianto – è interessante -, entrerà nel silenzio!

Lui, il Maestro che aveva instancabilmente proposto i Suoi insegnamenti, nella Passione pronuncerà solo pochissime parole. Lui, che aveva speso ovunque e con chiunque parole di pace, diventerà silenzioso strumento di pace fino alla fine, rispondendo all’odio con l’amore, all’offesa con il perdono, alla morte con il dono libero e totale di Sé.

Entrando nella Passione, Egli entrerà in Gerusalemme. Per portare la pace, Egli, che è la Pace, si mischierà, si confonderà con quella città che non può più riconoscere la pace, con quel luogo in cui la pace sembra diventata invisibile. Entrerà perché Gerusalemme, con un nuovo sguardo, veda di nuovo la pace. Entrerà in silenzio, ma la Sua Parola sarà più eloquente che mai, la Sua preghiera sarà più efficace che mai. Verrà ucciso ma il Suo essere Principe della pace si realizzerà proprio nel dare la vita.

Vedo qui una suggestione molto forte per noi sacerdoti, specie per i cappellani militari. A volte noi dobbiamo quasi “entrare” in situazioni di conflitti, anche di guerra, accanto ai militari. E ci potremmo sentire impotenti…

Ma è proprio il nostro “entrare”, talora in silenzio, e il nostro dare la vita a essere preghiera per la pace. È il nostro entrare rimanendo con i militari, piangendo con loro, portando loro Gesù: affinché anch’essi sappiano sempre più vincere l’odio con l’amore, l’offesa con il perdono, il buio della morte con la luce del dono totale di sé. Quel dono che i nostri militari sono capaci di vivere, a volte fino a sacrificare la propria vita per gli altri. Pregare per la pace, per noi cappellani, significa anche pregare e vivere per loro.

Lo facciamo oggi con tutto il cuore. Perché sia pace su Gerusalemme e sul mondo intero. E così sia!

 

Santo Marcianò

[1] Francesco, Omelia per la Veglia Ecumenica, Piazza San Pietro, 30 settembre 2023

[2] Francesco, Omelia per la Veglia Ecumenica, Piazza San Pietro, 30 settembre 2023

[3] Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Pacem in Terris, 90

[4] Pacem in Terris, 1

[5] Pacem in Terris, 5