Omelia in occasione dei funerali del generale Giangiacomo Calligaris e del tenente Paolo Tozzi

14-05-2014
25 gennaio 2014 – Viterbo
 
 
Carissimi fratelli e sorelle,
siamo qui per accompagnare Giangiacomo e Paolo in questo tratto di cammino verso il cielo. Lo faccio con il mio affetto di vescovo, di padre, e con tutto il cuore mi stringo ai familiari di questi nostri cari fratelli, ai quali in modo speciale e forte va il nostro abbraccio e tutta la
nostra addolorata e fiduciosa preghiera.
 
C’è un grido che attraversa oggi la Parola di Dio: «Dal profondo a te grido, o Signore»!
Solo quel grido riesce, in qualche modo, a penetrare nella drammaticità di questo momento, nel buio nel quale la nostra anima si sente avvolta; quel grido che si leva dalla bocca del Salmista e dai cuori delle famiglie dei nostri fratelli Giangiacomo e Paolo, dei loro cari, dei loro amici, dei compagni più vicini e dei colleghi che hanno condiviso il lavoro di questi anni, forse anche i momenti drammatici dopo l’incidente. Quel grido che attinge nel «profondo» degli affetti, dei ricordi, del dolore ma anche del “perché”, dell’incomprensibile nel quale eventi come questo sembrano, ad un tratto, farci ricadere.
Assieme al grido c’è un silenzio: «è bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore». Un silenzio di morte, di incredulità, di vuoto, di nulla. Ad un tratto, tutto sembra scomparire, con immediatezza e nella normalità. Un giorno come tanti, un evento ordinario, un’uscita di addestramento: non una delle innumerevoli missioni ad alto rischio cui il generale Giangiacomo era avvezzo e a cui il tenente Paolo guardava con timore ma anche, forse, con un atteggiamento di desiderio e di preparazione; e nemmeno una malattia grave, dolorosa, incurabile….
«È scomparsa la mia gloria… sono rimasto lontano dalla pace, ho dimenticato il benessere», piange Geremia nella prima Lettura. Un incidente improvviso, un silenzio insopportabile, che sembra cancellare tutto, come se nulla sia stato e nulla possa più essere. E tutto il bene, il bello appare sfuocato, dimenticato, in un certo senso si vuole dimenticare perché anche il «ricordo» ormai diventa quasi, spiega il profeta, come «veleno», ci invade di amarezza…
 
Carissimi familiari, carissimi amici e compagni di Giangiacomo e Paolo: siamo qui riuniti non per doveri di ruolo o formalità; siamo qui perché il vostro grido è il nostro grido, il vostro silenzio è il nostro silenzio. In questa Celebrazione Eucaristica, il grido e il silenzio ci accomunano e ci uniscono nella commozione, nel dolore, nell’accorata ricerca di senso. Ci accomunano come comunità e come famiglia: comunità e famiglia militare, comunità e famiglia cristiana.
Siamo uniti!
Siamo uniti ai nostri cari defunti, anzitutto, ma anche uniti fra noi da un senso di condivisione, da un affetto, da una fraternità che, ad un tratto, sembrano essere più forti e autentici delle tante cose che, quotidianamente, ci affliggono, diventando elementi di separazione degli uomini: differenze, rivalità, invidie, carriere, interessi, inimicizie, odi… Quante volte è proprio la morte a diventare maestra di comunione, perché ci richiama tutti all’essenziale della vita, a ciò che rimane per sempre, a ciò che di noi stessi vorremmo lasciare ai nostri cari, ai nostri figli, a un mondo arido perché assetato d’amore!
Siamo uniti nella preghiera. Non è facile pregare, in momenti come questo; ma è proprio in questi momenti che si coglie l’essenza della preghiera che, come ci ha insegnato Gesù sulla Croce, non è un insieme di parole, ma è, anch’essa, grido e silenzio.
 
Siamo uniti. Anche questi nostri fratelli sono andati uniti incontro al Signore. E questo, pur nel dolore schiacciante, ci appare come un tenue ma vero raggio di luce. Sono andati insieme!
Il generale Giangiacomo Calligaris: persona seria e schietta, affabile e rispettosa; uomo maturo, militare di esperienza, un curriculum ricco di qualifiche e incarichi di alta responsabilità, attestati di stima e benemerenza, che attestano la competenza, la perizia, la passione, la dedizione di una vita spesa nel servizio della Difesa, a livello nazionale ed internazionale.
Il tenente Paolo Lozzi: un ragazzo alla mano, benvoluto da tutti, animato da entusiasmo sincero e grande passione per un lavoro al quale avrebbe voluto davvero dedicare la sua esistenza.
Due persone diverse per età, per ruolo, per esperienza personale e professionale, certamente anche per temperamento, hanno affrontato insieme un passaggio decisivo che, improvvisamente, li ha inseriti in un’altra dimensione, in un’altra vita: nella Vita vera.
Che cosa li ha accomunati, che cosa li ha uniti?
Non basta l’elemento temporale a spiegarcelo, è una Parola che Gesù dice nel Vangelo: «Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese». Giangiacomo e Paolo – potremmo sintetizzare così – erano «pronti»!
Non abbiamo la pretesa di dire in che modo fossa pronta la loro anima, nessuno potrebbe farlo. Il Signore aiuta ciascuno a preparare l’incontro con Lui con modi e tempi diversi: con un cammino di fede limpido, con una ricerca affannosa, con il dolore che purifica, con la gioia che trasfigura, con un lampo di Luce che converte al termine della vita… Quello che sappiamo, però, è che questi nostri fratelli erano «pronti» come i «servi» che, nel Vangelo, il «padrone» trova «svegli».
Erano «pronti» perché erano «svegli». Perché, cioè, impegnati nel loro compito. Erano al lavoro, ed è così che il Padrone vuole trovare i servi: fedeli alla missione che Egli affida, perciò fedeli a Lui.
Giangiacomo e Paolo erano «pronti» perché erano «servi»: servi della Patria, servi dello Stato; servi di quel Padrone che affida agli uomini una missione che sempre, non lo dimentichiamo, è a servizio degli altri. Il grande generale che ha compiuto missioni altamente rischiose e il giovane tenente che forse sognava di farle, cadono nel servizio umile e amorevole del dovere.
È questo che conta agli occhi di Dio ed è questo che rimane per sempre. Non il grado acquisito, non le tante imprese, sia pure importantissime, portate a termine ma lo spirito di servizio, la dedizione, l’amore che si mette nel poco o nel molto che siamo chiamati quotidianamente a fare.
Questo i nostri amici lo avevano capito!
L’immagine del comandante e dell’allievo, del più grande e del più piccolo – che a ragione ha colpito e commosso molti di noi – ci resterà in cuore come un messaggio e un monito di umiltà e amore. È l’umiltà di chi insegna assieme all’umiltà di chi impara; è l’amore che li ha misteriosamente uniti nel momento della morte e che, come dice Giovanni, fa passare «dalla morte alla vita».
 
Carissimi fratelli e sorelle, carissimi familiari,
di questa umiltà e di questo amore il mondo, e anche il mondo militare, hanno grande bisogno. Ne ha bisogno ciascuno di noi, per affrontare i momenti più difficili del dovere quotidiano, della sofferenza, della morte. E, mentre accompagniamo Giangiacomo e Paolo, con i quali abbiamo camminato nel pellegrinaggio terreno, percepiamo che il cammino continua e la loro presenza ci aiuterà, a volte forse ci obbligherà, a guardare più spesso al cielo. Solo lì possiamo imparare e invocare la Luce e la forza di questo Amore che, anche grazie a loro, abbiamo incontrato e al quale, con speranza, oggi li affidiamo per sempre, affidiamo le loro famiglie, i grandi e soprattutto i piccoli, che chiediamo a Dio di voler accarezzare, consolare e custodire.
Quando si serve come essi hanno servito, dice Gesù, si è «beati», si è felici; si è in quella pace per la quale tanto i nostri militari lavorano. Questa felicità e questa pace, oggi, i nostri fratelli la incontrano in cielo, dove c’è «Dio stesso a servirli», dove Dio attende chi sa fare della propria vita un dono d’amore. E attende tutti noi!
 
E’ questa la speranza che si radica nella certezza della nostra fede: Cristo è Risorto e anche noi risorgeremo con Lui. Cristo è risorto e Giangiacomo e Paolo vivono con Lui per sempre.
E così sia!
 
 
X Santo Marcianò