Omelia in occasione della Celebrazione nei 30 anni della vicenda della “Battaglia del pastificio”

02-07-2023

Roma, Basilica S. Maria degli Angeli, 2 luglio 2023

 

Carissimi, la nostra Celebrazione, oggi, vuole ricordare tutte le persone coinvolte nella vicenda che il nostro Paese ricorda come la “Battaglia del pastificio”, avvenuta trent’anni fa a Mogadiscio; vogliamo ricordare i tre militari caduti (Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro), i 22 feriti così come ricordiamo i miliziani somali morti o feriti. Un evento tragico, difficile da interpretare e ricordare ma che, con l’aiuto della Parola di Dio di questa domenica, vorrei rileggere come paradossale possibilità di fecondità, di dono di vita: la fecondità dell’accoglienza, della croce e dell’amore.

 

La fecondità dell’accoglienza

La prima Lettura (2Re 4,8-11.14-16a) narra una storia di accoglienza; una storia semplice, comune. Un uomo, il profeta Eliseo, di passaggio in un villaggio, va a pranzo da una famiglia. Un invito di un giorno, che si ripeterà tante volte, ogni volta che egli passerà da quel luogo. Un invito che poi diventa ospitalità, attenzione ai suoi bisogni, non solo quelli primari ma quelli profondi; diventa condivisione di quanto una famiglia ha di più intimo, ovvero la casa. La donna si accorge che Eliseo ha bisogno di un luogo intimo per portare avanti la sua vita di preghiera, il suo servizio di profezia, anche quando viaggia per incontrare gli altri e venire incontro ai bisogni di fratelli.

In questo venire incontro, è lo stesso Eliseo che si accorge dei bisogni più veri e profondi della coppia di sposi: essi non hanno figli, il grembo della donna è sterile e ciò, oltre ad essere causa di tristezza, è una sorta di maledizione nella cultura del tempo. Accade così la profezia: «L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stingerai un figlio fra le tue braccia». Non semplice ricompensa ma frutto dell’accoglienza.

Mi piace pensare all’accoglienza considerando il servizio che le Forze Armate Italiane svolgono nelle Missioni estere di supporto alla Pace nonché nei confronti di tanti profughi e immigrati che arrivano nel nostro Paese. E l’idea di accoglienza non è certo in contrasto con il mondo dei militari chiamati, come dice il Concilio Vaticano II, a essere «servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli», contribuendo così «alla stabilità della pace»[1].

La presenza dell’Esercito italiano in Somalia era inscritta in una missione umanitaria voluta dalle Nazioni Unite (una istituzione che tutti vorremmo ritrovasse la sua forza e la sua centralità nel contesto dei conflitti che oggi tanto ci preoccupano); un servizio reso al popolo somalo, una condivisione della loro “casa”, della vita ordinaria, nel contesto di un impegno di assistenza alla gente e di difesa contro il banditismo. Si tratta di una dimensione importante della Difesa, intesa come servizio alla libertà, diritto inalienabile, che attinge alla stessa dignità della persona umana e della sua vita.

«Una convivenza fondata soltanto su rapporti di forza non è umana»[2], scrive Papa Giovanni nella Pacem in Terris, Enciclica di cui ricordiamo i 60 anni; operare per la libertà dell’uomo, difendere la libertà di persone e popoli ingiustamente oppressi e perseguitati, significa, in un certo senso, donare e ridonare vita: ecco la fecondità.

 

La fecondità della Croce

Proprio il 2 luglio di 30 anni fa, il nostro contingente a Mogadiscio fu vittima di un terribile attentato: tre dei nostri militari persero la vita, 22 rimasero feriti, alcuni in modo grave e con conseguenze permanenti. Per tutti, salutiamo qui Gianfranco Paglia, allora sottotenente paracadutista; e pregando in particolare per le giovani vittime, nella nostra Eucaristia ne vogliamo celebrare la memoria viva; li vogliamo pensare vivi, nella Liturgia del Cielo e nella realtà della Risurrezione.

Il contrasto tra la vita, la sofferenza, il peccato e la morte emerge con chiarezza dalla seconda Lettura (Rm 6,3-4.8-11); un chiaroscuro, un contrasto denso di possibilità di trasformazione. È la realtà della Risurrezione: Gesù vince la morte e «così – scrive Paolo nella Lettera ai Romani – anche noi possiamo camminare in una vita nuova».

Come il Cristo, chi vive e muore per gli altri, chi per gli altri soffre, inaugura nuovi sentieri di vita, possibilità di vita: ecco ancora la fecondità. E il rischio della vita è insito nella vocazione dei militari, anche quando essi operino in missioni umanitarie che, come quella in Somalia, mirano anzitutto a una promozione umana, sociale, sanitaria e relazionale della popolazione e sono in genere accolte con molta gratitudine dalla popolazione stessa.

Non è questa la sede per tornare sulle discussioni sorte attorno alla vicenda che oggi ricordiamo, ma il Vangelo (Mt 10,37-42) ci aiuta a riflettere attorno alla ragione ultima di un servizio di questa natura: l’amore.

 

La fecondità dell’amore

«Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà̀, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà̀», dice Gesù, e aggiunge: «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». È Parola che ci riporta ancora alla fecondità e proprio nel suo legame con l’accoglienza.

C’è davvero un legame profondo tra dare la vita e accogliere. Un legame che dice la verità antropologica fondamentale, per la quale l’essere umano è creato per il dono di sé: per «perdere» piuttosto che per «tenere per sé».

Quando pensiamo ai nostri militari impegnati in Missioni Internazionali, specie in alcuni Paesi ad alta densità di violenza e criminalità, come pure in situazioni che non sembrano chiudersi con l’esito atteso, si può avere la tentazione di considerare la loro come “vita in perdita”. L’insegnamento evangelico, che ci interpella anzitutto personalmente, dimostra invece come questo modo di vivere e di morire possa rappresentare un potente antidoto all’individualismo, generatore della cultura del benessere e dello scarto, del nazionalismo esasperato e dell’esclusione, della prevaricazione e della limitazione della libertà, di ogni attentato alla vita e alla dignità umana. Di questo erano e sono a servizio i nostri militari, anche coloro che operavano a Mogadiscio.

Perdere la vita è trovare la vita. È ritrovare le ragioni dell’esistenza, l’ideale profondo per cui vale la pena offrire se stessi, fino al sacrificio. Mi ha colpito, in un servizio video sulla Battaglia del Pastificio, ascoltare alcune interviste, specie quella dei genitori del sottotenente Andrea Millevoi, una delle tre vittime, i quali riportavano la gioia quasi inspiegabile con cui il figlio aveva comunicato loro la sua partenza per la Somalia. Un giovane appena affacciato al futuro, ma già capace di trovare il senso della sua vita in un servizio così faticoso, duro, pericoloso… esigente fino alla morte.

 

Cari amici, quanta fecondità educativa è racchiusa in esempi così! Quale preziosa testimonianza, non solo per i giovani, alcuni dei quali sono oggi storditi da dipendenze e incuria, ma anche per tanti adulti, soprattutto i rappresentanti della cosa pubblica e coloro che rivestono responsabilità in ambito socio-politico.

Oggi, dunque, noi celebriamo la Risurrezione di Gesù in un evento la cui ultima parola non è la morte: è la gioia di Andrea, più forte della morte; è la forza determinata di Gianfranco, ferito grave e campione paralimpico; è la fecondità di amore con cui i nostri militari, nelle Missioni estere e nel servizio ordinario, sanno ritrovare la propria vita perdendola per aiutare la vita e la risurrezione degli altri, nella gratuità accogliente e feconda del dono di sé.

Santo Marcianò

DOMENICA 02 LUGLIO 2023

2Re 4,8-11.14-16a
Dal Sal 88 (89)

Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42

[1] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Gaudium et Spes, 79

[2] Giovanni XXIII, Lettera Enciclica Pacem in Terris, 12