Omelia per l’Ordinazione diaconale di Giuseppe Massaro, Luigi Benemerito e Valerio Carluccio

22-10-2021

Basilica S. Maria degli Angeli – Porziuncola, 22 ottobre 2021

 

Cari fratelli e sorelle, cari Giuseppe, Luigi, Valerio, celebriamo insieme la vostra Ordinazione Diaconale, dentro il cammino che, da tempo, vi prepara al sacerdozio, nella comunità del nostro Seminario che ringrazio con affetto profondo e grato. Lo facciamo all’inizio del cammino del Sinodo della nostra Chiesa e della Chiesa universale che, per provvidenziale disposizione, segnerà i passi del vostro ministero.

Fin dalle sue origini, agli albori della comunità ecclesiale, il diaconato è espressione di una Chiesa sinodale, nella quale le diverse membra del corpo, le diverse vocazioni, sono composte in vista dell’unità, della comunione, della gloria di Dio. In questa “comunità sinodale”, al diacono è affidato un servizio di carità che, per certi versi, soccorre al ministero presbiterale, dedicato in modo più specifico alla preghiera e alla predicazione; ma anch’esso, in modo peculiare, è a servizio della Liturgia e della Parola.

 

Nella prima Lettura (Ger 1,4-9), ancora una volta, protagonista è la Parola, indispensabile perché Geremia si senta chiamato. È una Parola chiara e inequivocabile, egli stesso la definisce Parola «del Signore»; ma Geremia si difende. Si dice inadeguato, sa di non possedere i requisiti per esercitare la profezia. Eppure, il Signore insiste.

In questo dialogo vivace, si manifesta anche per voi – cari Giuseppe, Luigi e Valerio -, la memoria della vocazione: la Parola di Dio, i vostri tentativi di porre delle difese, la Sua insistenza che, alla fine, ha vinto. La resistenza del profeta, però, non è finta. Egli si sente davvero balbuziente, incerto, dinanzi alla chiamata. E Dio non lo rassicura con i criteri umani che forse Geremia si sarebbe aspettato, ma gli assicura la grazia della Consacrazione: stende infatti la mano su di lui, gli impone le mani, con un gesto simile a quello che io farò tra poco per invocare  lo Spirito Santo; e a essere toccata, sarà la bocca di Geremia, luogo della parola.

Il dialogo d’amore che è la vocazione è, potremmo dire, relazione tra Parola e parole: la Parola di Dio chiama e la nostra povera parola umana, rispondendo, ritorna a Lui e, in Lui, diventa, in certo senso “parola divina”; la Sua Parola che Egli, per la grazia della Consacrazione, «mette sulla nostra bocca»..

Cari amici, il servizio diaconale è servizio alla Parola e della Parola. Da oggi potrete proclamare il Vangelo, spezzare la Parola con l’omelia; e tutto questo dovrà tradursi nel concreto dei gesti e delle scelte, con un compito profetico che non si esaurisce sull’altare. Certo, tale compito può sembrarvi sproporzionato rispetto alle vostre forze; come Geremia, vi sentirete sempre «giovani», tutti ci sentiamo “piccoli” davanti alla Parola di Dio, alla Parola che è Dio. Ma la Parola ci viene incontro e noi dobbiamo accoglierla, giorno per giorno. Ad ogni giorno, la sua Parola: criterio per leggere la vita, per interpretare la storia, per conformare la nostra esistenza a quella di Gesù.

Il dono profetico richiede una risposta continua, un continuo dialogo con il Signore, all’interno del quale sperimenterete il Suo tocco che sfiora le vostre labbra: farete esperienza della Parola di Dio che si dona a voi, affinché voi possiate farne dono ai fratelli; quella Parola che si consegna a ciascuno di voi e, da ciascuno di voi, viene consegnata, con la profondità e creatività di ciascuno.

Nasce da qui il servizio di carità proprio del diacono, della singola persona con le sue caratteristiche e i suoi doni. «Ciascuno, secondo il dono ricevuto, lo metta a servizio degli altri». È bello l’invito di Pietro nella seconda Lettura (1Pt 4,7b-11): la prontezza nel «servizio», potremmo dire, nasce dal discernimento del «dono»; e del dono di ciascuno.

La risposta alla vocazione – lo dico soprattutto ai giovani – non cancella i nostri doni, li valorizza. Ci fa scoprire destinatari di un dono del quale forse eravamo inconsapevoli e, grazie al nostro “sì”, questo si trasforma gratuitamente in servizio. E ci trasforma.

Voi avete vissuto questa trasformazione operata in voi dal Signore.

L’hai sperimentata tu, Giuseppe, in un percorso di vita militare che, sempre più, lasciava crescere quei valori che la caratterizzano e ti hanno portato non solo a mettere «il dono ricevuto a servizio degli altri» ma a farlo «come buon amministratore della multiforme grazia di Dio»; hai scoperto che i tanti doni della tua persona venivano da Lui, erano pura «grazia»; e, nella gratitudine, hai saputo restituirli, donandoti ai fratelli.

Anche tu, Luigi, abituato a trovare la forza nei tuoi tanti impegni lavorativi, nelle tante relazioni portate avanti con grande senso di amicizia, hai sentito la potenza di quella voce che ti chiamava a vivere «con l’energia ricevuta da Dio»; non lo dimenticare, Lui è la tua forza; ed è Lui che ti ha permesso di lasciare tutto, per poter, in tutto, glorificare Lui.

E infine tu, Valerio, che ai piedi di Cristo porti la «carità fervente», vissuta nella tua professione di medico, e l’interiorità di una vita che ti ha «dedicato alla preghiera»; sappi che tutto questo, come una sorgente feconda, impregnerà in modo bello e indelebile il servizio diaconale in te.

Tutti voi, carissimi, oggi sperimentate con chiarezza che, come dice Gesù stesso (Gv 15,16), «non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga». Sì. L’iniziativa è di Dio, la scelta è sua; e Lui non vi lascerà più, sarà all’origine di ogni vostro compito e rimarrà vicino alla missione straordinaria che vi affida, nella vostra originalità irripetibile. Perché Egli è all’origine della vostra stessa vita e vi accompagna dall’origine, da «prima che foste formati nel grembo materno»… ovvero «da sempre»!

Ma perché il vostro un servizio di carità sia davvero fecondo siete chiamati a “rimanere in un grembo”. «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto», abbiamo ascoltato dal Vangelo (Gv 12,24-26).

C’è un grembo, c’è una terra che oggi vi accoglie, nella quale dovete rimanere – il verbo «rimanere», il greco «menèin», in Giovanni è molto forte – e per la quale dovete imparare a morire.

È la terra del mondo dei militari, dal quale vi siete sentiti chiamati, consapevoli del servizio d’amore, di giustizia, di pace loro affidato e custodito dalla nostra Chiesa. È la terra della Chiesa che vi accoglie; ed è bello che questa Celebrazione concluda il Convegno dei Cappellani Militari, facendovi gustare la gioia di un presbiterio riunito, riunito anche attorno a voi, che vi accompagna con il suo affetto, la sua guida, la sua testimonianza silenziosa e feconda come il seme.

Il seme che muore ci ricorda che non si può produrre vita se non si dona la propria vita. E questa, mi piace dire, è la dimensione liturgica del diaconato.

Con il potere di amministrare alcuni sacramenti, potrete toccare con mano la Vita di Cristo che ci santifica, grazie alla potenza della Sua morte e Risurrezione. Con il dono totale della vita, vissuto  nella preghiera e nella castità del celibato, diventerete “uno” con il Signore e con la terra nella quale siete seminati. Non è un moralismo ma un mistero che ci supera infinitamente e la cui grandezza percepirete crescere assieme all’amore e all’unione con Cristo.

La morte del seme non è solo il destino dei martiri e non è neppure un isolato evento eroico; è il termine “naturale” di una vita che matura seguendo ininterrottamente la corrente del dono di sé, certa di avere in sé l’energia capace di generare vita, perché anche la vita che noi doniamo morendo è dono di Dio, è la stessa Vita di Dio in noi. La liturgia, la preghiera, l’intimità di un’esistenza consumata nell’appartenenza al Signore, faranno crescere in voi questa vita. E il vostro seme porterà frutto.

 

Carissimi Giuseppe, Luigi, Valerio, non vi sentite inadeguati e non vi scoraggiate per le possibili sconfitte e i fallimenti: sono tutti segnali di un seme che muore. E non vi scoraggiate neppure per la piccolezza del seme: sappiamo dal Vangelo che anche da un granellino di senapa, il più piccolo di tutti i semi, può nascere un albero straordinariamente grande (cfr Mc 4,32). La logica è sempre questa, la morte. E siate sicuri che è proprio questa particolare morte a rendere la vostra vita eloquente e capace di rispondere alle tante morti di coloro che vi sono affidati: alle difficoltà e alle sofferenze dei nostri militari, delle loro famiglie, allo smarrimento di cui vive l’uomo del nostro tempo, anche per le conseguenze dolorose della pandemia.

Geremia è chiamato a profetizzare in un contesto particolare di dolore, eppure proprio lì egli può annunciare la presenza consolante del Signore.

Quel grembo che accoglie la nostra morte è il Grembo di Dio; è il Suo amore incarnato nel volto della Chiesa Sposa, con la sua bellezza e le sue ferite, nella quale e per la quale siete chiamati a vivere e morire: semi fecondi di quel processo sinodale nel quale, insieme, camminiamo, perché tutti possiamo portare frutto. E perché il nostro frutto, il frutto seminato da Dio in noi e attraverso noi, in voi e attraverso voi, rimanga per sempre, come è rimasto il frutto seminato dall’amato Giovanni Paolo II, il grande Santo di cui oggi si celebra la memoria e al quale vi affido, con affetto paterno e fiducia commossa. Grazie!

Il Signore benedica il vostro cammino. E così sia!

Santo Marcianò

 Ger 1,4-9

Dal Salmo 95 (96) Annuncerò, Signore, la tua salvezza

1Pt 4,7b-11

Gv 12,24-26