Omelia presso l’Ospedale del Celio in occasione della Giornata del Malato

07-02-2020

Carissimi fratelli e sorelle,

è Maria, la Vergine di Lourdes, che ci accoglie nella Celebrazione della Giornata del Malato. Oggi siamo in un luogo di speciale servizio, l’Ospedale Militare del Celio, un luogo di grande professionalità e profonda umanità. Un luogo dove tanti operatori sanitari si mettono a servizio dei militari che vivono la stagione della malattia, della sofferenza, della fragilità, come dice il Papa nel suo Messaggio, «facendo sentire la presenza di Cristo, che offre consolazione e si fa carico della persona malata curandone le ferite».

Ed è proprio la «persona» il punto centrale di questo Messaggio, il punto centrale del Vangelo, della stessa malattia. Una centralità che può salvare dalle pericolose «derive eutanasiche, di suicidio assistito o soppressione della vita», anche «quando lo stato della malattia è irreversibile»[1]. E quanto è preoccupante una tale deriva, ultimamente sempre più concreta nel nostro Paese! Quanta civiltà è persa laddove il malato non sia considerato persona da «curare» – laddove è possibile – e della quale sempre, sempre «prendersi cura»!

Siamo in un tempo in cui la centralità della persona va urgentemente ritrovata, affinché ogni ambito della convivenza umana, della politica, dell’economia, sia intriso del rispetto della sua dignità. E mi sembra che in questo voi militari, voi operatori della sanità militare, siate testimoni credibili, dai quali molti dovrebbero apprendere.

Nel Messaggio del Papa, illuminato dalla Parola di Dio, vorrei oggi ritrovare tre espressioni che ci aiutano in questa operazione, suggerendo una rivoluzione antropologica che diventa poi una rivoluzione d’amore: un’antropologia dell’integrità, della consolazione, dello sguardo.

 

«Nella malattia – scrive Papa Francesco – la persona sente compromessa non solo la propria integrità fisica, ma anche le dimensioni relazionale, intellettiva, affettiva, spirituale; e attende perciò, oltre alle terapie, sostegno, sollecitudine, attenzione… insomma, amore. Inoltre, accanto al malato c’è una famiglia che soffre e chiede anch’essa conforto e vicinanza»[2].

Si tratta di particolari che, da un parte, esigono un farsi carico che non si fermi solo alla cura di una patologia ma si spinga verso una visione integrale e trascendente dell’uomo malato; dall’altra parte, però, proprio essi sono una preziosa risorsa, che non di rado fornisce una forza più efficace delle stesse terapie mediche.

Mentre parlo, ho come voi dinanzi agli occhi tante testimonianze di malattie terribili, superate o accettate con la forza soprannaturale che viene dalla fede e dalla preghiera, come pure dall’amore di una famiglia o di una comunità cristiana che si fa grembo per le lacrime di ogni sofferente.

Cari amici, coltivate e conservate sempre una visione integrale e trascendente dell’uomo, che sfocia nella delicatezza di un approccio globale all’uomo: scoprirete quanto sia vero ciò che abbiamo cantato nel Salmo responsoriale, con le parole del Libro di Giuditta (Gdt 13,18-20): «Il coraggio che ti ha sostenuta non cadrà dal cuore degli uomini: essi ricorderanno per sempre la potenza di Dio». Sì, il coraggio dinanzi al dolore, alla malattia, alla morte, non è prerogativa umana ma manifestazione di un Dio che si è rivelato potente nella sofferenza e che, con la Sua Croce, diventa forza potente d’amore per gli uomini.

 

Sta qui il nucleo della «consolazione»: una parola bellissima e densa di significato biblico. Isaia è il profeta che forse più ha saputo annunciarla, pur nelle situazioni di dolore e umiliazione più impensate, facendone il cuore della sua speranza. «Consolazione», abbiamo ascoltato nella prima Lettura (Is 66,10-14c), è qualcosa di cui ci si può «saziare»; e pensiamo alle condizioni di malattia e di sofferenza estrema, dove la capacità di nutrirsi si perde, si rifiuta – per la fragilità psicologica – o addirittura si sottrae deliberatamente a un malato considerato terminale. Dio ci consola perché ci nutre, si fa Pane Eucaristico e pane di carità fraterna. Non perdete questa attenzione a farvi pane, a spezzarvi per i malati; e non perdete l’attenzione a capire che spesso il malato ha bisogno della consolazione spirituale, della vicinanza dei sacramenti, dell’accompagnamento di un sacerdote, per sentire il Dio vicino. Consolazione, infatti, è prima di tutto «vicinanza», come quella di «una madre che consola un figlio», dice ancora Isaia, offrendo a chi cura un’altra preziosa indicazione: madre, infatti, è colei che da la vita, che fa di tutto per accogliere, curare e proteggere la vita del figlio.

«La vita va accolta, tutelata, rispettata e servita dal suo nascere al suo morire», grida il Papa, ed esorta in particolare voi medici e operatori sanitari a ricordare come «in certi casi, l’obiezione di coscienza» sia «la scelta necessaria per rimanere coerenti a questo “sì” alla vita e alla persona»[3].

L’antropologia della consolazione è antropologia della vita, è «Vangelo della vita», scriveva 25 anni fa Giovanni Paolo II: il Vangelo che spinge a riscoprire in ogni uomo che soffre Gesù, Crocifisso per amore, nel cui Volto essa si specchia.

 

Ed è da Lui, dal Crocifisso, che impariamo l’antropologia che ho chiamato “dello sguardo”.

«Dio ha guardato l’umiltà della sua serva», canta Maria nel Magnificat ( Lc 1,41b-55), e il termine greco tapèinosis indica la piccolezza reale, ovvero la condizione dei reietti, dei rifiutati, dei disprezzati, di coloro che non hanno valore agli occhi del mondo.

Non sono così oggi i malati? Non sono poveri e ultimi coloro che spesso diventano vittime di politiche e di economie sanitarie che smarriscono la preziosità della vita, ricchezza imparagonabile a qualunque calcolo di profitto o interesse?

Papa Francesco sa che, come voi militari spesso sperimentate, a volte «in alcuni contesti di guerra e di conflitto violento sono presi di mira il personale sanitario e le strutture che si occupano dell’accoglienza e assistenza dei malati. In alcune zone anche il potere politico pretende di manipolare l’assistenza medica a proprio favore, limitando la giusta autonomia della professione sanitaria». Per questo si appella «alle istituzioni sanitarie e ai Governi di tutti i Paesi del mondo, affinché, per considerare l’aspetto economico, non trascurino la giustizia sociale… coniugando i principi di solidarietà e sussidiarietà».

Ma per questo si rivolge anche a noi, perché non dimentichiamo di accogliere e testimoniare quello «sguardo» che ricostruisce una vera antropologia, lo sguardo di Cristo: «Gesù guarda l’umanità ferita. Egli ha occhi che vedono, che si accorgono, perché guardano in profondità, non corrono indifferenti, ma si fermano e accolgono tutto l’uomo, ogni uomo nella sua condizione di salute, senza scartare nessuno, invitando ciascuno ad entrare nella sua vita per fare esperienza di tenerezza»[4].

 

Maria, la Vergine di Lourdes, alla quale tanti malati guardano con le lacrime, con la speranza, con la pace ritrovata, conceda anche a voi, cari malati, medici e operatori sanitari di questo Presidio carico di attenzione all’uomo, occhi capaci di guardare così alla sofferenza e al sofferente, per essere strumenti di tenerezza e di consolazione, portatori di guarigione per il corpo e lo spirito, ricordando che il servizio a cui siete chiamati è servizio alla vita, dono di Dio e, sempre, miracolo di eternità.

Grazie per quello che fate e per quello che siete. Il Signore vi benedica e vi consoli.

E così sia!

Santo Marcianò

Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia

 

[1] Francesco, Messaggio per la Giornata del Malato, 11 febbraio 2020

[2] Ibidem

[3] Ibidem

[4] Ibidem