Omelia S. Messa in occasione del V Convegno Nazionale dei Cappellani e degli Operatori per la Pastorale penitenziaria

24-04-2024

Assisi, Basilica S. Maria degli Angeli, 24 aprile 2024

 

La Parola di Dio, oggi, ci aiuta, in modo sorprendete, a tracciare un profilo del vostro ministero di cappellani nelle carceri; a ravvivare, rafforzare, consolare la vostra vocazione. Perché di una vocazione si tratta, di una chiamata del Signore il quale sempre ci «riserva per l’opera alla quale» ci chiama, come ha fatto con San Francesco d’Assisi o con Paolo e Barnaba, lo abbiamo ascoltato nella prima lettura (At 12,24-13,5).

Egli ci mette da parte per un compito che forse sentiamo duro, pesante, fuori dalla nostra portata ma la cui portata, inserita nella Storia della Salvezza, solo Lui conosce e solo Lui ci dona la forza di compiere.

«Lo vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,33): dovremmo sentire le parole che danno il titolo al vostro Convegno rivolte a ciascuno di noi prima di rivolgerle agli altri. Il Buon Samaritano, che è Gesù stesso, ci avvolge di compassione per renderci come Lui capaci di compassione. Compassione che il Vangelo odierno (Gv 12,44-50) ci aiuta a vedere concretizzata nel vostro ministero.

«Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre». Gesù ripropone qui il contrasto luce-tenebra, tipico peraltro del Vangelo di Giovanni. Egli è la Luce, mandato dal Padre alle tenebre del mondo.

Se proviamo a pensare al carcere, non facciamo fatica a immaginarlo come un mondo in cui, alla tenebra della mancanza di libertà, si associano altre criticità a voi note. Penso a problemi quali il sovraffollamento, le tante angosce personali, i drammi delle dipendenze e dei suicidi, non ultimo i casi di maltrattamento di parte di alcuni.

Tenebre reali nelle quali c’è la necessità di aprire spazi di Speranza e illuminarli con la Luce di Cristo. Accanto a questi drammi, infatti, sempre più nascono nelle carceri esperienze di impegno, lavoro, creatività, arte, solidarietà, che associano al riscatto sociale una vera e propria rinascita dell’umano. Sono i frutti che si raccolgono quando, per dirla ancora con il vostro Convegno, si passa «dall’indifferenza alla cura»; si valorizza il ruolo del carcere nell’alveo di una «funzione rieducativa della pena».

Come si innesta in questo contesto sociale e organizzativo, il ministero dei Cappellani?

Gesù ce ne dà le coordinate, con una Parola chiara e, potremmo dire, commovente: «Io non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo». Sì, non condannare ma salvare: la vostra opera è l’opera stessa salvifica del Cristo!

Da una parte, non condannare. Il verbo gerco krìnein, che ha la stessa radice di krìsis, viene usato con la doppia accezione di «condannare» e «giudicare», come si evince già dal colloquio tra Gesù e Nicodemo, all’inizio del Vangelo di Giovanni (Gv 3,17).

Il compito del sacerdote non è il giudizio, non è la condanna ma la misericordia, la «compassione». E il tema della misericordia assume straordinaria valenza in un mondo come questo; non solo perché visitare i carcerati è un’opera di misericordia ma perché Gesù stesso si è identificato con loro: «ero carcerato e mi avete visitato» (Mt 25,36).

Non basta, dunque, «fare» qualcosa per i carcerati ma bisogna «essere» per loro, come Gesù.

È qui, forse, l’invito più provocante, che riecheggia nelle parole rivolte da Papa Francesco ai cappellani del carcere di Ciudad Juarez in Messico, durante il Giubileo della Misericordia (17 febbraio 2016): siate «segni delle viscere del Padre» e «lasciatevi incarcerare con loro»!

È l’invito a “stare dentro”, a sentire il senso di appartenenza a questa realtà di tenebra rimanendo però piccoli portatori di Luce; e a farlo attraverso una misericordia che vi invade fino alle viscere e che così, solo così, vi può rendere veramente padri.

Nella luce di questa misericordia e di questa peculiare paternità, è possibile raccogliere una concreta sfida pastorale: guardare al carcerato come persona e al carcere come comunità.

Il carcerato può essersi macchiato di delitti gravi o lievi, può essere un pericoloso criminale o anche un innocente. È comunque persona e rimane persona! Destinatario – come recita il titolo della recente Dichiarazione del Dicastero per la Dottrina della Fede – di una «dignità infinita»; dignità che si deve riconoscere a ogni persona, in qualunque stato o situazione di vita.

Dalla chiarezza di tale verità deriva la «cura» dovuta a ciascun carcerato, inclusa la sua “recuperabilità”, la possibilità di un cammino di conversione che l’essere umano può sempre compiere e la comunità cristiana deve accompagnare: anche la peculiare comunità che si crea in carcere, grazie alla presenza e al ministero di voi cappellani, a volte coadiuvato dal lavoro di tanti laici, volontari, catechisti….

Cammino di conversione significa poi accoglienza del disegno di salvezza: «sono venuto a salvare», dice infatti Gesù. Ed è una salvezza che si compie nella libertà e dona libertà; la Sua Parola, Egli specifica, può essere solamente «ascoltata e accolta».

In nome della libertà, l’uomo può rifiutare Dio, può rifiutare il bene. In nessun luogo come in carcere l’essere umano ha sperimentato l’esito di tale libertà!

Quante di queste storie avrete ascoltato… A volte vicende in cui è ancora forte la convinzione e la rivendicazione di aver commesso crimini in piena libertà; ma spesso, soprattutto nei giovani, situazioni di dolore per tante scelte condizionate da una libertà plagiata, ingannata, costretta, educata male…

In ogni caso, si è fatta esperienza di “libertà” e, paradossalmente, ora si sperimenta la “privazione di libertà”! Quale Luce può portare la «salvezza» di Cristo in un contesto del genere?

La Storia della «salvezza», lo sappiamo, parte sempre da una «liberazione». E credo che la sfida di cui il mondo delle carceri oggi possa fare esperienza – e possa diventare quasi “profezia” – sia proprio qui: avendo sbagliato a motivo della libertà, e vivendo ora in assenza di libertà, riscoprire la chiamata a vivere una libertà vera, piena, salvifica: la libertà dell’amore!

Non è forse per poter amare che l’uomo è creato libero? Non è forse nell’amore che la salvezza si compie, restituendo all’essere umano la capacità di amare, che è ferita da ogni tipo di peccato?

Cari amici, ecco dove si colloca la delicatezza e la bellezza del vostro ministero, della vostra vocazione, dell’opera di salvezza a cui il Signore vi chiama verso i carcerati.

Nell’annunciare loro, con le parole e la vita, i Suoi comandamenti che sono «vita eterna», ha detto Gesù, nell’annunciare loro l’Amore!

Nell’accompagnarli, con la compassione e la cura, da pastori ma anche da fratelli «incarcerati con loro».

Nel contribuire alla santificazione dei carcerati, specie attraverso i sacramenti, Presenza stessa del Cristo.

Nel mantenere, con una preghiera incessante, l’unione intima che vi conforma a Cristo per essere, come Lui e in Lui, intercessori per il vostro popolo e Luce nella tenebra che lo avvolge.

Concludo pensando al vostro ministero rivolto anche a coloro che nel carcere hanno un ruolo chiave ed è il personale della Polizia Penitenziaria; a loro, da ordinario militare, mi permetto di rivolgere un pensiero particolare facendo riferimento ad una pastorale specifica da valorizzare, e lo faccio con il grazie che Papa Francesco ha rivolto loro nell’udienza del 2019: «Grazie perché il vostro lavoro è nascosto, spesso difficile e poco appagante, ma essenziale. Grazie per tutte le volte che vivete il vostro servizio non solo come una vigilanza necessaria, ma come un sostegno a chi è debole»[1].

A voi cappellani, e a voi tutti operatori della pastorale penitenziaria, il mio grazie, il grazie della Chiesa e del Paese. Siete preziosi: continuate a donarvi così!

Santo Marcianò

 

[1] Papa Francesco, Discorso alla Polizia Penitenziaria, al personale dell’amministrazione penitenziaria e della giustizia minorile e di comunità, Piazza San Pietro, 14 settembre 2019.